Nella diplomazia dei sorrisi, ieri il presidente francese Emanuel Macron ha evitato di mostrare i denti in tutte le foto ufficiali dello storico incontro che si è tenuto a La Celle-Saint Cloud, vicino Parigi, tra il generale Khalifa Belqasim Haftar e il premier del governo di accordo nazionale Fayez al-Serraj. Anche se la stretta di mano tra i due rivali libici, più ancora dell’accordo in dieci punti siglato da entrambi, è un oggettivo primo successo del nuovo inquilino dell’Eliseo.

Macron, subito dopo, si è proteso a tranquillizzare l’Italia innervosita da questo spodestamento di ruolo nella sua ex colonia: ha voluto «dire grazie» al «mio amico» Paolo Gentiloni «che si è molto adoperato e con il quale abbiamo parlato molto in preparazione della dichiarazione odierna».

Il generale Haftar e il capo del governo di Tripoli Serraj hanno accettato ieri un cessate il fuoco, che non è il primo, e hanno concordato sulla necessità di arrivare a elezioni politiche generali e presidenziali nella primavera del 2018, che in tempi libici appare ancora lontana. Ma è un dato di fatto che nel precedente faccia a faccia, l’incontro del 2 maggio scorso ad Abu Dhabi con la mediazione degli Emirati arabi uniti, i due si erano lasciati senza neanche un comunicato congiunto. Perciò siamo di fronte a un significativo passo in avanti nel senso di una pacificazione, o come si usa dire nelle diplomazie europee, di una de-escalation.

Macron commentando la dichiarazione congiunta ieri ha voluto sottolineare come la guerra civile non abbia «nulla di ineluttabile», ricordando che «nel dicembre 2015 è stato firmato a Skhirat un accordo sotto l’egida dell’Onu ma poi numerosi ostacoli ne hanno impedito la piena attuazione a dispetto degli sforzi di tutti e ciò ha portato grandi sofferenze per popolo libico».

Quindi ha sottolineato «l’offensiva sempre più pericolosa di Daesh – l’Isis ndr – anche in Libia, con il rischio che il paese diventi un santuario delle organizzazioni terroristiche».

Esistono in effetti rapporti di servizi d’intelligence che segnalo come i foreign fighter dell’Isis sconfitti a Sirte dalle forze di Misurata fedeli a Serraj e le milizie islamiste in parziale rotta a Derna, sotto i raid di Haftar, stiano cercando di rimettere insieme una milizia. E Macron, in perdita di consensi in Francia ma anche appena incoronato da Trump – il 14 luglio – il più fido alleato Usa in Europa, può ora vantare un ruolo di pacificatore in un’area di incubazione dei terroristi che tante stragi hanno portato in Francia, dopo che proprio la Francia nel 2011, con il suo predecessore Hollande già a corto di appeal tra i francesi, aveva dato impulso all’intervento Nato, sotto l’egida Onu, per cacciare Gheddafi, storico alleato italiano, senza neanche un piano per stabilizzare il paese, di fatto precipitandolo in una situazione di caos e di guerra civile durata sei anni.

Parigi negli ultimi due anni, dopo l’appoggio Onu al governo Serraj in seguito all’accordo di Skhirat in Marocco, gli ha continuato a preferire Haftar, l’uomo forte della Cirenaica, ex generale del Colonnello Gheddafi in Ciad. L’Italia invece è stata lo sponsor più fedele di Serraj, che infatti oggi sarà a Roma da Gentiloni. È vero che la Francia non ha ancora una ambasciata aperta in Libia, al contrario dell’Italia, ma può contare almeno sulla «benevolenza» del nuovo inviato speciale delle Nazioni Unite per la Libia, il maronita Ghassan Salameh, ex ministro della Cultura del premier libanese Rafik Hariri che fino a pochi mesi a Parigi insegnava relazioni internazionali a Sciences Po.

Nella Libia di oggi, devastata e divisa, sorrisi e strette di mano non creano entusiasmo. E ha più eco l’annuncio del consorzio italiano Aeneas, che ha vinto l’appalto per ristrutturale lo scalo internazionale di Tripoli – capofila il gruppo edile Mazzitelli con sede a Bari – di creare migliaia di posti di lavoro in loco. A Tripoli vive un terzo della popolazione libica e le infrastrutture sono al collasso.