È passato un mese esatto dall’accordo siglato dai governi di Italia, Libia (quello di unità di Tripoli), Ciad e Niger: per fermare i migranti dall’Africa subsahariana saranno creati centri di «ricezione» (leggi detenzione) in Niger e Ciad.

Bloccati prima che arrivino in Libia e trovino la via per la costa, raggiunta pagando cifre stratosferiche e con la schiavitù a clan, tribù, trafficanti a cui Roma riconosce – stringendoci intese più o meno dirette – legittimità.

Immaginabili le condizioni in cui i migranti finiranno, visto che in centinaia di migliaia ci sono già passati.

Intanto si continua a morire in mare: ieri l’Onu ha dato il bilancio dell’ultimo naufragio lungo le coste libiche, almeno 126 morti, dopo che un gruppo di trafficanti ha avvicinato il barcone e rubato il motore.

Una giornata di ordinaria morte sul Mediterraneo. Nelle stesse ore l’Italia si congratulava con il governo di unità libico per l’accordo raggiunto – sotto egida Onu – dalle città rivali di Misurata e Tawergha, un’intesa già stretta ad agosto ma mai concretizzata, riguardante i 40mila sfollati di Tawergha per mano delle brigate di Misurata e dal 2011 bloccati nel campo profughi di Falah, nella capitale.

Secondo l’accordo, le parti risarciranno «le persone danneggiate» e permetteranno «il ritorno della sicurezza per le due popolazioni». Nel 2011 le milizie di Misurata attaccarono la città, 50 km a sud, la saccheggiarono e diedero fuoco alle case. A monte il sostegno che la comunità avrebbe riconosciuto al colonnello Gheddafi e attacchi ai misuratini.

Ma l’intesa manca di una data certa per il ritorno degli sfollati in una città fantasma. E i dubbi non mancano: in uno Stato fallito, non c’è un’autorità considerata legittima da tutte le parti che vigili su questo accordo e altre intese.