Nel settembre 1936 Giorgio de Chirico arriva insieme alla futura moglie Isabella Packszwer a New York con il transatlantico Rex. Il suo soggiorno negli Stati Uniti dura sedici mesi, fino al gennaio del 1938. Con il sostegno del magnate collezionista Albert Barnes e della galleria di Julien Levy (dove espone nel 1937) cerca di promuovere anche dal punto di vista mercantile la sua produzione più recente, che era stata violentemente screditata dal «complotto surrealista e modernista» che aveva decretato la sua morte creativa dopo la gloriosa stagione degli anni dieci. In due testi, con geniale potenza evocativa innesca un cortocircuito temporale che trasforma anche New York in una mitica città metafisica, con divinità antiche che si materializzano fra le modernissime costruzioni geometriche. Ma l’entusiasmo per il nuovo mondo ha breve durata, perché l’interesse di collezionisti e musei rimane legato alla sua pittura metafisica.
Per quello che riguarda Giulio Paolini, le sue opere incominciano a essere esposte a New York già all’inizio degli anni settanta alla Sonnabend Gallery, e poi anche al MoMA e al Guggenheim Museum e in altri musei e gallerie come quelle di Sperone Westwater e di Marian Goodman fino a oggi. Ma il suo lavoro, nonostante i notevoli riconoscimenti, rimane profondamente europeo e abbastanza distante dai canoni estetici americani. E quindi appare abbastanza singolare il fatto che il primo dialogo diretto fra le sue opere e quelle di de Chirico, suo fondamentale modello di riferimento, si sia concretizzato nel lontano continente americano, sia pure grazie all’iniziativa di una benemerita istituzione italiana, il CIMA (Center for Italian Modern Art), fondata e diretto da Laura Mattioli. È qui che sei capolavori dechirichiani della storica collezione Mattioli – Le muse inquietanti, L’enigma dell’ora, Ettore e Andromaca, Interno metafisico (con piccola officina), La ricompensa dell’indovino, Autoritratto – coabitano insieme a una serie di lavori paoliniani, vecchi e nuovi, in cui risuona in modo indiretto, o con esplicite citazioni, l’eco del pictor optimus. Una mostra che stimola, attraverso un gioco di sguardi incrociati, un’inedita prospettiva di lettura dei due artisti.
È questa una buona occasione per farci dire da Paolini qualcosa sulla sua affinità elettiva con de Chirico. Incomincia raccontandomi in tono aneddottico i soli due fuggevoli incontri con il vecchio maestro: «Mi ricordo bene quando, giovanissimo, l’ho visto per la prima volta a Torino nel 1957 o 1958, durante una sua conferenza all’Unione Culturale, tenuta dopo la mostra della pittura metafisica alla Biennale di Venezia, a cui aveva negato il suo consenso. Con un monologo velenoso si era scagliato contro l’arte moderna che per lui era tutta un inganno, una nullità. Ricordo la mia cosciente indignazione, l’appassionato rifiuto che allora opponevo al suo discorso, dalla prima all’ultima parola. Qualche anno dopo sono arrivato a rovesciare il mio giudizio, quello che mi era sembrato il nemico da abbattere, il bersaglio da colpire, doveva diventare la personificazione dell’idolo, il mio illustre modello. Nel 1975, in compagnia di mia moglie e dell’amica Marisa Volpi, mi è capitato di andare a un ricevimento a casa sua a Roma, in Piazza di Spagna. Nel salotto c’erano vari ospiti di mezza età che si intrattenevano con conversazioni molto noiose. Il Maestro era assente. Mi sono messo a curiosare un po’ in giro, e di colpo in fondo a un corridoio ho visto de Chirico che mangiava tranquillo, tutto solo, in cucina…»
Riguardo alla sua stretta parentela con lui, Paolini ribadisce quello che mi aveva già detto in un’intervista di tanti anni fa, e cioè che de Chirico lo affascina come figura, quasi al di là dell’opera, perché rappresenta un punto di vista molto distaccato e scopertamente critico verso la pienezza della proposta artistica. E che la sua è una posizione laterale rispetto a quella della cultura artistica contemporanea, una posizione esemplare: «De Chirico ha colto meglio e prima degli altri l’inevitabile ritirata dell’opera di fronte al perché dell’opera. Lui più di ogni altro, e proprio mentre continuava a produrre, è riuscito a declinare l’imperativo del significato, prendendo le distanze da tutta l’avanguardia che ancora guardava con spirito positivo alla costruzione dell’immagine».
Con l’installazione all’aperto (nel 1969 nella manifestazione Campo Urbano) di uno striscione con il motto Et quid amabo nisi quod aenigma est?, Paolini dichiara ufficialmente la sua adesione all’ironica e melanconica visione dechirichiana, adesione costantemente rinnovata nel tempo, in particolare nelle sue numerose riflessioni scritte, come per esempio in Gli uni e gli altri, dove troviamo come epigrafe la citazione, dal romanzo incompiuto di de Chirico Monsieur Dudron, in cui risuona il vuoto della teoria solipsistica: «La realtà non può esistere in pittura perché in generale non esiste sulla terra. L’universo è unicamente una nostra rappresentazione».
Chiedo a paolini una definizione di questi concetti chiave: enigma, melanconia, ironia, vuoto. Mi risponde che sono tutti aspetti concatenati fra loro. Iniziamo dall’enigma: «L’enigma si accompagna inevitabilmente con una sorta di procedere ossessivo e rinnovato ogni volta che l’artista affronta un nuovo passaggio, cioè passa all’opera successiva. In fondo è come se ci si trovasse sempre di fronte alla prima, perché non è che l’artista proceda verso la verità. Se vogliamo, la sua verità è nel non averla voluta accettare, e dunque eccolo con la presenza irrisolvibile dell’enigma…»
Nella mostra newyorkese la sua installazione più ampia si intitola, significativamente, Melanconia ermetica, per sottolineare la centralità di questa dimensione per tutti e due gli artisti. «La quota di melanconia che emerge da ogni opera d’arte – mi dice Paolini – nasce dalla sensazione che non possa mai corrispondere alla realtà. L’opera può corrispondere solo alla verità di se stessa».
E riguardo all’ironia: «L’ironia è come la melanconia; è una sottrazione e una mancanza. Entrambe, la melanconia e l’ironia, non sono aspetti umorali, sono cifre intellettuali, mentali. Per me ironia e distacco possono essere associati. Il distacco che io metto sempre tra opera e autore. Non intendo sottoporre aspetti della mia personalità attraverso l’opera. Penso che l’opera possa e debba essere se stessa senza la soggettività dell’autore; le opere si autogenerano. In generale, l’ironia vera rimane tra le righe, rimane inespressa. La sua finezza è nel non manifestarsi apertamente».
Passiamo adesso all’attrazione per il «vuoto», altra liaison fatale con l’amato maestro. Gli chiedo: nel tuo caso, l’opera è una rete di salvataggio per non precipitare nel vuoto o è un dispositivo estetico che ci risucchia nel vuoto, nella vertigine del vuoto? Mi risponde che la mia è «un’elegante esposizione di una questione non risolvibile» e aggiunge che in questo senso, per lui, «l’arte può essere un’ossessione o una consolazione, una condanna o una lievitazione».
E per concludere affronto l’apparente paradosso relativo al fatto che sia de Chirico sia lui, ciascuno nel proprio tempo, sono in fin dei conti comunque protagonisti ed espressione di quell’avanguardia così ostinatamente rinnegata. «Potrei dire che questo termine, avanguardia, va strettamente correlato all’età del soggetto. Mentre da giovane non puoi sottrarti a questo codice di ricerca del nuovo, e spartire qualcosa con l’avanguardia, invecchiando c’è un distacco. Oggi non vedo più quell’interesse ad andare avanti. Cerco di andare in profondità… Nessuno meglio di de Chirico ha saputo destreggiarsi, in epoca moderna, nell’insostenibile ruolo di ‘artista contemporaneo’, non per un attento, sorvegliato, equilibrio tra passato e presente, ma per essersi abbandonato a una trionfale caduta libera negli abissi del Tempo».