Mancano poco più di tre mesi alle elezioni europee e un po’ in tutti i paesi i sondaggi segnalano il rischio di una crescita del voto anti-europeo di estrema destra. La crisi economica che ha colpito in misura diversa i paesi dell’Unione europea, aprendo una spaccatura tra nord e sud e tra ricchi e poveri all’interno dei singoli stati si tradurrà nelle urne con una manifestazione di sfida verso le istituzioni ormai quasi sessantenni? C’è qualche possibilità di invertire la rotta, mentre anche la Francia di Hollande, che poteva aver suscitato qualche speranza all’inizio della presidenza, è ormai rientrata nei ranghi e si concentra sulla riduzione del costo del lavoro invece di preoccuparsi del rilancio economico e della diffusione della democrazia, che si annacqua sotto i colpi della tecnocrazia dominante da cui una parte crescente dei cittadini si sente esclusa se non addirittura presa in giro dalla predominanza degli interessi finanziari?

Ne parliamo con Etienne Balibar, professore emerito di Filosofia politica e morale a Paris Ouest e all’University di California di Irvine. In Italia è uscito di recente Cittadinanza (Bollati Boringhieri, 2012). 

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I sondaggi dicono che un terzo del prossimo europarlamento potrebbe essere occupato da parlamentari anti-europei. E’ l’ultimo effetto della crisi, che quindi non è ancora finita, come invece cercano di rassicurarci le autorità europee?

I sondaggi vanno presi con precauzione, ma qui in Francia l’ultimo mette in testa il Fronte nazionale, nel gioco triangolare Ps-Ump-Fn, con purtroppo i più piccoli partiti, Europa-Ecologia e Front de Gauche, in perdita di velocità. Queste elezioni vedranno entrare in massa, più o meno importante, gli anti-europei. Segnale che la crisi non è finita, anzi non fa che cominciare. L’Europa è a una sorta di biforcazione storica: la sua stessa esistenza è rimessa in causa, per cui, anche se non dobbiamo farci illusioni sui rapporti di forza, è importante presentare delle alternative intellettuali e politiche per farsi sentire nel dibattito pubblico. Con l’inizio della crisi, tre anni fa, avevo usato in un articolo il termine populismo europeo, espressione certo pericolosa: ma volevo dire che bisognava dare espressione all’inquietudine, all’angoscia, alla rabbia delle classi popolari europee, presenti non solo nel sud. Anche in Francia c’è un rifiuto del modo in cui la classe dominante gestisce la costruzione europea e le politiche nazionali. Per precisare, parliamo allora di contro-populismo, visto che il populismo è incarnato dall’estrema destra. Si tratta di un’opposizione, anche radicale, alle politiche europee attuali, che rappresenti un’alternativa al populismo di destra. In caso contrario, chi perde il lavoro e le prospettive di avvenire, la sicurezza morale e culturale, non avrà altra scelta che votare in modo nichilistico per la destra o l’estrema destra. C’è un bisogno di resistenza e di protesta ma sfortunatamente la possibilità più visibile è quella offerta dalla destra e dall’estrema destra, anche se non siamo agli anni ’30, la storia non si ripete, non c’è un forte partito fascista, ma siamo di fronte a una crisi morale che può favorire derive molto pericolose nell’opinione pubblica. I socialdemocratici si accorgeranno troppo tardi di non aver fatto nulla per combattere questo.

La sinistra presenta il greco Alexis Tsipras come candidato alla presidenza della Commissione. Lei ha firmato un appello a favore di questa proposta. Scegliere un greco ha anche un valore simbolico?

La candidatura di Tsipras è un modo per criticare la Ue senza per questo essere anti-europei (corsivo nostro, ndr). Non facciamoci illusioni, non sarà eletto alla presidenza della Commissione, ma simbolicamente è molto importante che ci sia un nome attorno al quale le forze e il sostegno politico possano unirsi in tutta Europa per esprimere la necessità di una vera alternativa alla politica attuale, che comporti la proposta di rifondare l’Europa su basi democratiche e sociali nuove. Mi sembra che Tsipras possa essere un buon portavoce, dobbiamo trarre la lezione della crisi greca e della distruzione del paese su iniziativa della Commissione, con politiche neo-liberiste.

Quindi non tutto è perduto?

Non bisogna vedere la costruzione europea dagli anni ’50 a oggi come un processo lineare. Ci sono stati cambiamenti di orientamento, anche biforcazioni. Anche se non è del tutto esatto dire che il Trattato di Roma era sociale, coincideva però con un momento dello sviluppo dello stato sociale nei diversi paesi europei. Ha offerto una certa protezione. Questa situazione è oggi rovesciata. Dopo l’89, l’allargamento a est e la mondializzazione trionfante l’Unione europea lavora sistematicamente a distruggere i diritti sociali. Sono d’accordo con Luigi Ferrajoli, che parla di de-costituzionalizzazione. La previdenza sociale era all’ovest una componente delle costituzioni. Il rapporto di forze si è rovesciato. Il momento decisivo sono stati gli anni ’80, la grande Commissione Delors, il compromesso tra social-democratici e democristiani degli anni Schmidt-Giscard, Mitterrand-Kohl, che si è realizzato attraverso la moneta unica e gli attacchi all’Europa sociale. L’Europa si è messa a funzionare come strumento della concorrenza mondializzata, all’interno dello stesso spazio europeo. La crisi del 2008 ha messo in evidenza questo. Il caso greco lo dimostra. I paesi europei dominanti hanno rifiutato la solidarietà, hanno fatto appello all’Fmi, la troika tratta certi paesi europei allo stesso modo in cui erano stati trattati i paesi indebitati del terzo mondo. La costruzione europea ha trascurato la solidarietà e lavorato esplicitamente a distruggere l’unità europea: l’Europa è divisa, ineguale tra regioni, gli interessi di una parte sono in contraddizione assoluta con quelli degli altri. Se guardiamo al passato in modo globale, nel ’45 il territorio europeo era diviso in due dalla guerra fredda, separato da un muro, oggi l’Europa non è più separata da un muro ma da un fossato tra ricchezza e povertà, tra nord e sud, con l’ulteriore complicazione che questa divisione ha luogo anche all’interno di ogni singolo paese. Si tratta di una frattura economica e sociale che ha anche tendenza ad accentuare le differenze regionali. Gli esperti ci dicono che una moneta unica non può esistere se non c’è un’analoga politica economica: ma non può nemmeno esistere se alcuni ne sfruttano altri.

Le responsabilità sono soprattutto della Germania?

La Germania ha sfruttato enormemente la zona euro, per crearsi un mercato interno nella Ue e per l’export. La Germania ha approfittato dello spread sui tassi di interesse, che le permette di prendere a prestito a tassi negativi e dopo la riunificazione – tedesca e della Ue – la Germania, che aveva solide basi industriali, è riuscita a stabilire rapporti di subappalto con l’est, che permettono di produrre a livelli salariali molto vantaggiosi. Ma nessuno di questi vantaggi può durare indefinitivamente. E tutta l’Europa che ha bisogno di uno sviluppo equilibrato. Anche se la nozione di pianificazione è considerata ormai un’assurdità se non addirittura un crimine dall’ideologia dominante, bisognerebbe cominciare a capire che l’Europa necessita di una politica economica comune, che comporta un minimo di pianificazione. Invece, nessuna ricetta applicata finora per risolvere la crisi ha migliorato la situazione. Non serve a nulla fare le Cassandre, ma l’Ue è minacciata di dissoluzione, tra gli antagonismi tra classi, nazioni e regioni, le soluzioni solo tecniche proposte in politica monetaria e l’autoritarismo tecnocratico in politica. Ma i popoli hanno davvero interesse ad andare ognuno separatamente? Non credo che nessuno abbia interesse, neppure i popoli che soffrono di più, come i greci. L’unica soluzione è fare blocco assieme, costruire contro-poteri e non dissolversi in una frammentazione di stati. Non sono ottimista, ma partigiano di una costruzione europea a condizione che ci siano politiche alternative e che vengano tratte al più presto le conseguenze della crisi.

Hollande aveva rappresentato una speranza. Vista l’ultima svolta, è stata messa una pietra sopra la possibilità di qualsiasi altra strada al di fuori dell’austerità?

Hollande è un esponente della politica francese, i cui dirigenti, di destra come di sinistra, non sono mai stati partigiani di un’integrazione politica europea. Tutti hanno cercato di servirsi dell’Europa per quello che pensano siano gli interessi nazionali e oggi gli interessi nazionali non sono quelli delle classi popolari e neppure di tutto il capitale, ma di quello finanziario. Hollande ha tentato la grande spaccata, proteggere occupazione e industria da un lato e dall’altro allinearsi sulla politica neo-liberista europea cercando di diventare un allievo modello. Oggi ha una strategia simile a quella della Grosse Koalition di Angela Merkel, in Germania con l’Spd, in Francia con il padronato: non è un piano machiavellico, ma un tentativo di creare un blocco di potere Francia-Germania che controlli l’Europa intera. La differenza, comunque, è che in Germania è la destra a dover fare alcune concessioni alla sinistra, mentre in Francia è la sinistra, al potere ma senza potere, che fa tutte le concessioni al padronato, chiudendo le porte alle rivendicazioni sindacali. La speranza di Hollande è di ottenere dal padronato a breve-medio termine una crescita dell’occupazione che gli permetta di rimontare politicamente. Ma non credo che riuscirà.