Il tragico epilogo dell’occupazione militare in Afghanistan dovrebbe aver almeno spazzato via il grande inganno: non esistono «guerre umanitarie». Al limite può essere invocato il diritto di resistenza contro il tiranno ovvero contro l’invasore, ma l’uso della forza comporta sempre azioni contro l’umanità. Non si tratta di essere pacifisti, ma solo di essere contrari alla guerra. Lo ha detto Gino Strada, lo ha stabilito la nostra costituzione.
La spietatezza di tutte le guerre fa venir meno anche l’altro argomento retorico utilizzato per giustificare gli interventi armati contro i paesi asiatici considerati nemici dell’occidente: la necessità di esportare la democrazia. Pretesa politicamente ambigua e storicamente ingenua.

Ciò non vuole dire però che dobbiamo rimanere impotenti di fronte alla violazione dei diritti e delle libertà democratiche. È ancora una volta la nostra costituzione che ci chiarisce i termini del problema. In essa si legge che non si può esportare la democrazia, ma si devono salvaguardare i diritti fondamentali della persona. Da un lato, il ripudio della guerra, che avrebbe dovuto impedire il coinvolgimento del nostro paese in conflitti armati o operazioni di occupazione militare in territori stranieri (l’Afghanistan, ma non solo), dall’altro, il diritto d’asilo, che dovrebbe essere assicurato a tutti coloro a cui è impedito l’effettivo esercizio delle liberà democratiche garantite dalla nostra costituzione.

Invece di seguire questa via maestra – pacifismo e solidarietà tra i popoli- tutte le maggioranze che si sono succedute negli ultimi trent’anni hanno preferito accogliere le diverse priorità imposte dalle politiche internazionali. A quel punto i diritti umani sono diventati un mero pretesto per interventi che si sono rivelati vere e proprie «guerre di conquista», come dimostra inequivocabilmente il diverso atteggiamento assunto dalle stesse potenze occidentali nei confronti dei paesi asiatici alleati, per i quali si applica rigorosamente il principio di non ingerenza negli affari interni.

D’altronde tutto ciò non può stupire: l’ordinamento internazionale è storicamente – oltre che soggettivamente – dominato dalle logiche di potenza degli Stati nazione, fallito ogni tentativo di limitarne la forza in ragione di principi umanitari. Ora la drammatica conclusione della missione afgana dovrebbe farci aprire gli occhi.

Ma dovrebbe anche farci interrogare su come si possa in concreto riuscire a preservare la pace assieme ai diritti umani. Alcune iniziative ci indicano chiaramente la rotta: Emergency, in primo luogo, ma anche tutti quegli interventi ufficiali di Stati o delle organizzazioni internazionali, a partire da quelli delle Nazioni unite, finalizzati a garantire quei diritti che spettano a ciascun individuo in quanto essere umano. Ecco, è la cooperazione che dovrebbe ora prendere il sopravvento.

Sento già l’obiezione di molti, che non nego abbia un suo fondamento. Puntare tutto e solo sulle organizzazioni che operano sul piano sovranazionale – private o governative che siano – senza poter contare sulla deterrenza dell’uso della forza degli Stati finirebbe per lasciare troppo spazio all’arroganza dei sovrani del mondo, restii a piegarsi alle ragioni dei diritti umani e che, anzi, edificano il loro potere assoluto proprio sulla violazione di questi. In sostanza un’accusa di irenismo che non può essere elusa. Ma proprio questo giusto richiamo al realismo dei rapporti di forza induce ad una ulteriore e decisiva considerazione. Puntare sulle organizzazioni internazionali non vuol dire delegare ad esse la garanzia dei diritti e l’effettività del loro rispetto nelle varie parti del mondo. Tutt’altro.

Vuol dire chiamare i popoli a lottare per essi. Vuol dire richiamare, ex parte populi, anche gli Stati alle proprie responsabilità politiche e sociali, per far valere oltre alle ragioni dell’economia anche quelle dei diritti. D’altronde la storia anche questo ci ha insegnato: i diritti non vengono mai regalati, ma devono essere sempre conquistati dai diretti interessati.

È vero, lasciare solo alle organizzazioni umanitarie il compito di garanti dei diritti delle persone concrete vorrebbe dire – bene che vada – limitarsi alla testimonianza, se non condannare l’azione a favore dei diritti ad un fallimento annunciato. Se non sapremo dunque innescare un processo politico agguerrito e diffuso in grado di lottare per i diritti inviolabili delle persone, non saranno gli Stati nazione ad assicurare le libertà democratiche in nessuna parte del mondo. Neppure a casa propria, se è vero che lo sdegno che si è levato in questi giorni nell’intero occidente per le gravi violazioni in Afghanistan, si accompagna al timore delle nuove migrazioni e a misure di contenimento o di rifiuto dell’accoglienza dei profughi.

Nel nostro paese la costituzione ci impone di accogliere i rifugiati (art. 10) e ci ricorda che i diritti sono inviolabili solo se si accompagnano ai doveri inderogabili di solidarietà che riguardano l’intera collettività (art. 2). Un invito all’impegno nel far valere i proprio diritti assieme a quelli degli altri non tramite le armi, ma in base ad una lotta politica, economica e sociale