Contrordine compagni. Non c’è più il pensiero unico, ce ne sono almeno due. Calma e gesso, si sta parlando della riforma del cinema e dell’audiovisivo in discussione presso la competente commissione del Senato. Infatti, la discussione ruotava attorno al disegno di legge di Rosa Di Giorgi (sottoscritto da numerosi esponenti del partito democratico) – in presenza pure dell’articolato di Francesco Giro di fede pidiellina – frutto di un lungo lavoro istruttorio.

Modello di riferimento è quello francese, fondato su un centro nazionale per la cinematografia che integra e supera le strutture ministeriali. Si aggiunge nell’ipotesi Di Giorgi la «tassa di scopo», vale a dire il prelievo percentuale sui biglietti, e soprattutto sui proventi degli editori televisivi, nonché dei gestori telefonici e dei fornitori di servizi di comunicazione on line: gli «Over the top», vale a dire gli imperi digitali come Google.

Lacunoso qua e là, come sui temi dell’introduzione larga della didattica dei testi, incerto sul delicato aspetto della redistribuzione delle risorse: però un punto di partenza. Tale da fare immaginare possibile un’uscita dal vuoto pluriennale di una normativa di sistema, che risale alla legge (Corona) 1213 del 1965: un anno d’amore, cantava Mina; e c’erano ancora i Beatles.

Nel frattempo è cambiato il mondo.

Insomma, pur con riserve e necessarie modifiche, la strada sembrava spianata. Del resto il ddl data 24 marzo 2015.

E, invece, ecco arrivare il governo, con un dispositivo decisamente oppositivo. Sparisce il centro nazionale, viene sostituito il prelievo sui «ricchi» con una quota delle imposte – la fiscalità generale – a carico dei protagonisti del settore (ma non gli «Over the top»), si riduce al 15% del totale il flusso verso le opere a minor certezza di successo. Non meno di 400 milioni di euro in tutto, si dice. Non granché, visto che oggi affluiscono al comparto circa 240 milioni (77 dal fondo dello spettacolo e il resto dal tax credit). E varie altre differenze. Naturalmente, con molteplici (25?) decreti attuativi.

Quasi un anno dopo, il governo smentisce di fatto la sua stessa maggioranza, suscitando amarezza e sconforto nella quasi totalità delle associazioni interessate (a cominciare dall’Anac e dai 100 autori), salvo forse l’organizzazione dei produttori.
Il rischio concreto è che ora il processo legislativo si interrompa o che si ribalti l’ordine degli addendi, essendo la proposta del ministro Franceschini un collegato della manovra economica, quindi formalmente prioritaria. Sarà praticabile una convergenza? Senza un chiarimento politico vero non c’è da sperarci troppo. Del resto, già nelle due precedenti legislature tentativi di riforma (Colasio, Franco) progenitori dell’attuale testo parlamentare si impantanarono dopo incoraggianti inizi. Ovviamente, non c’è da augurarselo.

Tuttavia, è doverosa una scelta netta.

Dire «cinema» nell’era delle svariate piattaforme digitali significa evocare contenuti e qualità. «Cinema» non è solo un medium, bensì anche un’opzione culturale che attraversa, sostanzia l’insieme dei mezzi tecnici.

Significa mettere fine all’egemonia della televisione generalista, che ha occupato l’immaginario collettivo, tra l’altro saccheggiando il patrimonio: solo la Rai nel 2015 ha trasmesso 2.873 film -278 Rai1 (46 nel prime time), 1.425 Rai2 (56) e 1.170 (100) Rai3- di cui solo il 40% italiani ed europei.

Ecco perché il cinema fiction e documentario ha bisogno di riconquistare centralità. Per dare anima e memoria alla società dell’informazione.