L’immagine più forte è quella della navicella spaziale in mezzo all’anello di Saturno. Totale solitudine. Ma è stupenda anche la grande onda che sta per sommergere i nostri eroi nel mare di un pianeta sconosciuto. Per non parlare di un duello tra i ghiacciai di un secondo pianeta. Alla fine ci toccano parecchio questi 169 minuti di Interstellar, visionaria space-opera ambiziosissima e non sempre controllata, ma costantemente di alto livello firmata da Christopher Nolan, che l’ha scritta assieme al fratello Jonathan e l’ha costruita in 70 mm-Imax con Hoyte van Hoytema, il grandioso direttore della fotografia svedese di Lasciami entrare, La talpa e Her.

 

 

Visivamente è qualcosa di impressionante, soprattutto se riesci a vedere il film in 70mm (in Italia l’unica sala che lo proietta così è a Melzo), e ancor di più ci piace, e piace a Paul Thomas Anderson e a Quentin Tarantino che lo hanno da subito difeso, se si pensa che è girato tutto o quasi in pellicola, senza green screen, con navicelle spaziali vere. Un ritorno al cinema classico, alla grande scuola di cinema d’avventura. Anche se, come ha ricordato Tarantino su The Guardian, non è facile vedere un film di avventure spaziali che punti al mondo di Andrei Tarkovsky o di Terrence Malick. Ma alla fine del film quello che ci colpisce di più non è l’ambizione malickiana, o l’uso del 70 mm, o lo spreco di orologi Hamilton come da sponsorizzazione cialtrona, ma l’idea di ricucire dentro un kolossal eccessivo da 200 milioni, dove una star come Matthew McConaughey viene spedito da quel che resta della Nasa dentro non so quale worm hole dalle parti degli anelli di Saturno insieme a Anne Hathaway e a un robot con la parlantina, una piccolissima storia d’amore paterno e di promesse che vanno mantenute. Perché anche se hai la missione impossibile di salvare la razza umana in un altro pianeta di qualche galassia sconosciuta, anche se sei un esploratore alla Leslie Fielder e non un guardiano della terra da coltivare a mais, se esci di casa lasciando i tuoi figli per raggiungere la terra promessa o universi inesplorati, il tuo vero viaggio non sarà quello verso l’ignoto, ma quello di ritorno verso casa. Pure se il tempo passa e i figli crescono, sia nella finzione, come in questo caso, sia nella realtà, come in Boyhood di Richard Linklater.

 

In uno strano futuro che ha ridotto la terra a una specie di Dust Bowl alla John Steinbeck e alla Woody Guthrie, ma anche un po’ alla Wizard of Oz, martoriato da fame, siccità, tbc, malattie delle piante e tempeste di polvere come negli anni ’30, il pilota Cooper, cioè McConaughey, ha promesso a sua figlia Murph, la strepitosa Mackenzie Foy di Twilight che poi nel tempo diventerà Jessica Chastain e Ellen Burstyn, che dopo aver compiuto la sua missione per salvare la specie umana su un altro pianeta tornerà a casa. Partirà, a dispetto dei tentativi della figlia per farlo rimanere. Ma noi sappiamo che dovrà tornare. Tutto il resto, alla fine, compresa la poesia ricorrente di Dylan Thomas, «Do not go gentle into that good night», conta poco.

 

Fissatevi da subito, anche perché è la prima scena che vediamo, sui libri impolverati e il modellino di razzo interplanetario della cameretta di Murph. Il viaggio che faremo è circolare. Si deve tornare da dove si è partiti. E’ questo che tiene in vita Cooper nella sua esplorazione di pianeti sconosciuti, sia che siano interamente coperti d’acqua o del tutto ghiacciati. Anche la sua co-pilota Amelia Brand, Anne Hathaway, ha un padre amoroso, il dottor Brand, cioè Michael Caine, e un rapporto d’amore con lui. E Murph finirà per vedere Brand come un padre, e lui come una figlia, in un gioco di sentimenti specchianti.
Interstellar è un film potente e ambizioso come da anni non se ne vedevano a Hollywood. La sua visione del mondo e delle cose è grandiosa. Ma anche clamorosamente ingenuo. E questo probabilmente lo rende invulnerabile per i suoi fan, che sono moltissimi, e per evitargli di cadere nelle trappole del misticisco deleterio alla Terrence Malick. Ci sono delle cadute, è vero. Soprattutto nella parte finale del film, anche se molti trovano invece noiosa la prima parte sulla terra, che personalmente trovo strepitosa con la polvere che avvolge tutto. I suoi personaggi inoltre non sono mai pienamente sviluppati, e spesso è la forza stessa degli attori, la presenza di Matthew McConaughey, lo sguardo di Jessica Chastaim, l’ambiguità di Matt Damon, i volti storici e segnati di Ellen Burstyn, John Lithgow e Michael Caine, il ricordo che abbiamo di loro altrove a funzionare al di là delle battute che hanno e della non-direzione di Nolan.

 

E le sue costruzioni narrative non sbocciano mai in un racconto epico commovente alla Steven Spielberg, pensiamo solo a Intelligenza Artificiale o a Incontri ravvicinati. Ma la sua mancanza totale di ironia o umorismo, anche se il robot Tars ricorda che il suo umorismo è programmato al 90%, lo portano dalle parte del grande cinema d’avventura americano degli anni d’oro, più dalle parti di Il tesoro della Sierra Madre di John Huston che da quelle di Furore di John Ford, però, o da quelle di Uomini veri, rilettura space opera dio Clint Eastwood dei grandi western. Nolan crede totalmente nel suo progetto di cinema e nel suo film. Al punto che ci convince che dobbiamo crederci anche noi. É questa la sua forza e la forza del cinema. Anche se ci fa un po’ ridere il poltergeist nella libreria di Murph. O queste quinte dimensioni che sembrano i negozi dell’Ikea. E la soluzione della vicenda, è piena di buchi narrativi, non di buchi neri. Ma fa lo stesso. Lo amiamo comunque.