François e Penelope Fillon sono stati interrogati ieri, a sorpresa e separatamente, dagli inquirenti che indagano sul lavoro fittizio come assistente parlamentare della moglie del candidato della destra alle presidenziali. Fillon si dibatte per salvare l’onore e la candidatura, che finora aveva proprio fondato sull’«onestà». Ha persino alzato il pugno chiuso al grande comizio di domenica, urlando: «Attraverso Penelope cercano di piegarmi, ma io non ho paura di nulla, ho la pelle dura».

È tutto dire per l’ex primo ministro che vede la popolarità in calo e che ora corre addirittura il rischio di dover rinunciare alla candidatura conquistata alle primarie a dicembre, nel caso venga colpito da un’incriminazione.

Va in fretta l’inchiesta giudiziaria preliminare sulle remunerazioni di Penelope Fillon, sospettata di aver svolto un’attività fittizia come assistente parlamentare del marito, ma ben pagata, 500mila euro in otto anni (a cui vanno aggiunti 100mila euro in meno di due anni per una collaborazione alla Revue des Deux Mondes). Il meeting di domenica avrebbe dovuto essere quello del rilancio della campagna per le presidenziali, ma è stato soltanto un tentativo per ribattere alle accuse del Penelopegate.

Il dramma del resto pare solo all’inizio, Le Canard Enchainé, che ha pubblicato le rivelazioni la settimana scorsa, potrebbe ancora aggiungere qualcosa di nuovo nell’edizione di mercoledì. Mediapart e il Journal du Dimanche, inoltre, hanno fatto riferimento a un’inchiesta in corso sulle casse segrete di senatori di destra (ex Ump, oggi Républicains), che non riguarda Fillon, ma potrebbe sfiorarlo.

Fillon, da parte sua, più si giustifica più affonda nelle contraddizioni. Domenica ha detto di avere con la moglie un solo conto in banca, nella sede locale del paesino della Sarthe dove sorge il manoir di sua proprietà. Ma i parlamentari sono obbligati ad avere un conto specifico per i soldi versati da Senato o Assemblea per remunerare i collaboratori. I suoi portaborse hanno dovuto spiegare che i Fillon hanno sì la stessa banca, «ma diversi conti». Per giustificarsi, Fillon ha detto che i soldi del sospetto lavoro fittizio della moglie arrivavano direttamente sul suo conto, una toppa peggio del buco.

Giovedì scorso, per rispondere alle rivelazioni del Canard, Fillon aveva ammesso di aver «remunerato» anche due figli, per delle missioni specifiche ai tempi in cui era senatore, scelti «per le loro competenze di avvocati». È bastata una piccola verifica per notare che, all’epoca, i due figli implicati non erano avvocati, ma ancora studenti in Legge. Ieri, è stato anche interrogato dagli inquirenti il miliardario, padrone dell’agenzia di rating Fitch, Marc Ladreit de Lacharrière, grande amico di Fillon e proprietario della Revue des Deux Mondes. Se il lavoro di Penelope Fillon si rivelerà fittizio – il direttore di allora non ricorda nulla della collaborazione di Penelope Fillon – potrebbe venire incriminato per abuso di beni sociali.

Fillon è ben solo, la destra ha ormai dei dubbi sulla validità della sua candidatura. Alcuni gridano al «complotto», ma senza grande entusiasmo. La destra pensava di avere l’Eliseo in tasca, la vittoria era quasi assicurata. Invece, adesso prevale l’incertezza. C’è la sfida dell’elettorato ai partiti tradizionali, che colpisce i Républicains come il Ps. C’è la concorrenza del candidato «né di destra né di sinistra» Emmanuel Macron, che attira l’elettorato giovane, anche a destra. Infine, l’estrema destra resta una minaccia per la destra classica. Il Fronte nazionale è stato discreto sul Penelopegate, perché si è macchiato delle stesse colpe di cui è sospettato Fillon: il Parlamento europeo ha chiesto a Marine Le Pen di restituire 340mila euro, che l’eurodeputata ha usato per remunerare due collaboratori che operavano invece solo in Francia e non avevano nulla a che vedere con l’attività di europarlamentare. Una «cabala» per il Fronte nazionale, che sembra immune dalle conseguenze di queste rivelazioni, come se esistesse un «effetto Teflon» e tutto scivolasse senza creare problemi su un elettorato convinto nel voler prendere d’assalto il «sistema».