«Voi che cosa fareste? Anzi, provate a chiedervelo: che cosa avete fatto?». Sono queste le domande essenziali che interpellano i lettori di Morire il 25 aprile (Frassinelli, pp. 325, 19,00), primo romanzo del teorico della letteratura Federico Bertoni, cominciato già nel 2004 e dedicato a «Farfallino», il comandante partigiano Vincenzo Sutti, morto dopo un malore che lo colse proprio il 25 aprile 2003, in casa dello stesso Bertoni. Che cosa fareste? Che cosa avete fatto? A interrogarci è il narratore e protagonista della storia che si sviluppa nel presente (cioè i primi anni del nuovo millennio).
È il 20 marzo 2003 e mentre la televisione manda in onda le prime immagini della Seconda guerra del Golfo, l’eroe del romanzo non può far altro che proiettare il proprio dissenso nella previsione di atti poco più che simbolici: «firmerò appelli in rete, presidierò qualcosa, griderò slogan».
Mentre l’evento accade, il protagonista «è solo e nudo e anche il gatto ronfa sulla poltrona»: «Me ne torno a letto, che altro posso fare?». Gli eroi sono altri, sono i partigiani: «Tutti loro erano eroi, anche quando erano costretti a rinchiudersi in cantina». L’indagine attorno alla quale il romanzo si sviluppa (una sorta di quête, sull’esempio di grandi narrazioni resistenziali, ripercorse solo in parte: «temo che questa non sarà affatto una questione privata») riguarda proprio gli oscuri moventi di una violenza commessa contro la famiglia del narratore da un leggendario comandante partigiano, Julien («forse per quel libro di Stendhal in cui l’eroe viene ghigliottinato»).

Julien è il protagonista della storia narrata nel passato; tra lui e il narratore (che pure l’ha conosciuto e amato) si scatena un conflitto postumo. Un corpo a corpo ingaggiato tra presente e passato, tra evento e memoria, nel tentativo di trovare il bandolo della matassa, il filo della Storia che da quella guerra porti alle guerre di oggi. Il tema di fondo del romanzo è qui, nel contrasto tra il desiderio di agire e l’impossibilità di farlo: è il concetto di crisi dell’agency, ricorrente nell’analisi politico-sociale sul presente, su cui lo stesso Bertoni si è espresso in un saggio recente, Universitaly. La cultura in scatola (Laterza 2016) dedicato ai guasti del sistema universitario.

I primi anni zero, quelli del G8 di Genova, delle Twin Towers e dell’Iraq, sono una delle tre epoche evocate nel romanzo; le altre sono la Resistenza e gli anni ottanta, rispettivamente l’età eroica, di cui il protagonista cerca tracce e memorie, e l’età della (de)formazione in cui è cresciuto.

Le tre epoche sono distinte anche dal trattamento narrativo che Bertoni riserva loro. La Resistenza è il passato che non passa, la guerra senza fine («guerra è sempre», dice Mordo Nahum, il greco della Tregua di Levi, qui citato). Le altre due epoche, al contrario, non fanno presa; non che siano prive di snodi, di eventi importanti che hanno smentito nei fatti la profezia sulla cosiddetta «fine della storia». Il punto è che quegli snodi ed eventi diventano sfondo, immagini che si rincorrono sugli schermi della televisione («E spegni la TV», ripete il narratore) mentre i riempitivi dell’esistenza quotidiana – anche quelli più importanti, come l’amore – sono in primo piano. A volte sembra che proprio nei riempitivi (mai semplicemente tali) il protagonista possa intravedere una via d’uscita dall’impasse in cui si costringe anche per colpa di una prospettiva velleitaria. «Certo, se ti fissi sull’epopea del grande eroe…», gli dice Lucia, la materna amica da cui è attratto; e ancora: «Lascia quei vecchi nella tomba e non raccontarti che ti hanno tolto ogni spazio d’azione».

Poco prima di scambiarsi queste parole, i personaggi hanno partecipato a una grande manifestazione contro la guerra. Ma la guerra scoppia lo stesso: lo spazio d’azione forse resta, ma a che serve? Anche i grandi cortei pacifisti, mentre si svolgono, diventano sfondi televisivi.
La risorsa narrativa a cui Bertoni ricorre più spesso per esprimere la contradditoria insignificanza o transitorietà del memorabile è la forma dell’elenco (che, non a caso, ricorre anche nelle nostalgiche ballate televisive sui migliori anni o decenni del passato individuale e nazionale): «Perché nel Sessantotto non ero ancora nato. Perché nel Settantasette facevo la prima comunione (…). Perché nell’Ottantuno, alla scuola dei preti, mi avevano detto che l’aborto permetteva di uccidere i bambini. (…) Perché nell’Ottantanove ho visto la caduta del Muro in televisione».
Quell’insignificanza o meglio quella convenzionalità contagiano la stessa coscienza del protagonista, il suo modo di parlare un po’ televisivo, a volte anche i suoi pensieri e valori correttamente contro. L’urgenza del passato diventa allora anche un modo per dare corpo e senso all’esperienza, per rilanciarla verso l’estremo: «Ma cosa dovremmo fare?» «Dovevamo ucciderli tutti», i fascisti e chi aveva collaborato con loro.
Il protagonista ci prova, ma il suo tentativo eroico, la sua volontà di adempimento postumo di una Resistenza non vissuta né conosciuta di persona, è un falsetto. Ci prova, sì, ad armarsi per ammazzare un vecchio aguzzino fascista, ma quando arriva a casa sua lo trova già morto. «Un’ora dopo sono sul treno che risale verso casa». Che avreste fatto voi? Che avete fatto?