Dopo il successo de Gli anni, Il posto e L’altra figlia, L’orma editore torna a proporre, con Memoria di ragazza (traduzione di Lorenzo Flabbi, pp. 256, € 16,20), la scrittrice francese Annie Ernaux. Come già i precedenti titoli, anche in questo caso si tratta di una narrazione autobiografica, eppure ciò che continua a sorprendere è il modo in cui Ernaux declina l’esperienza personale ben oltre l’ovvia considerazione che, qualsiasi cosa scriva, uno scrittore non faccia che parlare di sé, in un modo o nell’altro. Perché – e qui sta il punto – il modo non è indifferente, anzi: esso diventa il senso stesso dell’autobiografia, un’interrogazione costante sui suoi limiti e sulle sue possibilità; una ricerca che passa dal laboratorio dello scrittore al laboratorio del lettore dando vita a un rapporto mobile e fragile che è alla base dello stesso patto autobiografico. Ecco, dunque, come, nella rievocazione di un momento particolare della propria vita, ai fatti evocati dal passato si sovrapponga sempre l’inquietudine presente del rievocare; ecco, come, ancora, la persona di cui Ernaux scrive quando parla di sé, a notevole distanza di tempo rispetto agli avvenimenti cui si riferisce, non è lei stessa ma nemmeno una finzione o un personaggio di fantasia, bensì un essere umano la cui memoria le appartiene ma che sta oltre lei: più indietro negli anni o molto avanti, nel futuro che rappresenta il risarcimento incorporeo della scrittura; ad ogni modo, «una sorta di presenza reale» fuori di sé.
Per circoscrivere il discorso, in Mémoire de fille (così in originale, pochi mesi fa) questa presenza è l’Annie diciottenne nell’estate del 1958, «un’estate senza particolari anomalie meteorologiche, quella del ritorno del generale De Gaulle, del franco pesante e di una nuova Repubblica, di Pelé campione del mondo di calcio, di Charly Gaul vincitore del Tour de France e della canzone di Dalida Mon histoire c’est l’histoire d’un amour»; l’Annie che ancora faceva di cognome Duchesne: una ragazza piena di «ignoranze sociali» che conosce le cose solo attraverso i libri e le riviste che divora avidamente e che per la prima volta mette il naso fuori dalla rassicurante quiete domestica per trascorrere le vacanze lontano dai genitori, in un vecchio castello adibito a colonia dove si appresta a fare l’educatrice.
Qui, quella giovane con cui l’Annie di oggi cerca ancora «un po’ di somiglianza» consuma, in poche settimane, la propria acerba maturità: è questo il suo passaggio della linea d’ombra che separa l’età adolescente da quella adulta, questo il suo ingresso nel mondo. E però, le mura del castello sono, per lei, «uno spazio chiuso» che tiene a distanza il mondo: la storia, quella con la «s» maiuscola (i fatti di Algeria, la rivoluzione in fieri del decennio che sta per venire), resta al di là, come un’eco lontana. Tutto è concentrato in un microcosmo popolato da figure che non sembra possano avere un destino che nell’interpretazione del ricordo. Pressoché nessuno ha un nome, come Ernaux rammentasse, con Fitzgerald, che un uomo non è che una somma di iniziali. Ogni cosa ruota intorno alla scoperta della sessualità e alla perdita della verginità: «la grande memoria della vergogna, più minuziosa, più irremovibile di tutte le altre. Quella memoria che, insomma, della vergogna è lo specifico dono».
Inscrivendosi in una tradizione che dai Souvenirs d’égotisme di Stendhal arriva al romanesque di Alain Robbe-Grillet, Annie Ernaux si ritaglia uno spazio tutto suo; uno spazio che questo Memoria di ragazza traduce in una sequenza di scene isolate che scardinano la fallace prospettiva della ricostruzione storica, per dare spazio a una necessità – cioè all’incontro tra volontà e bisogno di esporsi sulla pagina come su una lastra – libera da qualsiasi apologia dei sentimenti che non sia raggiunta dall’ambiguo sconforto di «esplorare il baratro tra la sconcertante realtà di ciò che accade nel momento in cui accade e la strana irrealtà che, anni dopo, ammanta ciò che è accaduto».