Con una stagione di ritardo approda infine a Palermo la seconda giornata del Ring wagneriano, Siegfried, con la regia di Graham Vick. A partire dal 2013, con un bellissimo Rheingold il regista britannico ha iniziato una nuova avventura wagneriana, che sembrava doversi interrompere con il tempestoso cambio di vertici al Teatro Massimo, voluto dal sindaco Orlando.

 

 

«Sicuramente Siegfried è la giornata più difficile del Ring» – conferma Vick emozionato e sorridente nel foyer del teatro a pochi minuti dalla prima. «Con l’ingresso di Siegfried, protagonista unico e centrale, ci sono molti cambiamenti e una quantità di nuovi dialoghi, spunti e faccia a faccia fra personaggi davvero complessi da scandagliare. Ogni volta si scopre qualche elemento nuovo, e ogni volta mi innamoro di quest’opera che mi travolge. Il vero rompicapo per me resta sempre Das Rheingold, tantissima musica ma un filo narrativo più esile per il regista».

 

 

Vick sottolinea come, rispetto alla precedente esperienza di Lisbona, che molti vedono come ispirazione principale dell’Anello palermitano, ci sia una invece una notevole distanza. «Natutalmente c’è qualcosa dell’impianto, alcuni elementi scenici (ad esempio il drago montacarichi che corre all’impazzata sulla scena fino a essere trafitto, un effetto elettrizzante) sono rimasti, ma non molti». Il primo atto è tutto cambiato (una cucina piccoloborghese, un appartamentino alla Ken Loach che Mime divide con Siegfried) e per il resto ci sono tantissime differenze. L’impianto piccolo borghese e persino miserabile (sacchi di spazzatura nella foresta, Erda quasi barbona – la splendida Judit Cutasi), si sposa bene con il tema della natura perturbata e senescente, mentre al terzo atto la scena si fa nuda, persino troppo, dopo l’estinguersi del fantasmagorico anello di fuoco di Loge che protegge Brunnhilde, dormiente nella nera body bag, come alla conclusione di Die Walkure.

 

 

La narrazione è molto terrena, persino brutale (forse eccessivamente e con qualche gesto gratuito, come il doppio sbrigativo eccesso sessuale di Wotan con Mime prima e con Erda poi, nonché il suggerito stupro del Waldvogel-bambino scout, l’aerea Deborah Leonetti) ma sempre agganciata al testo e alla musica con più di un momento felice. Forse la pausa forzata e la distanza con la giornata precedente ha un po’ allentato la tensione e aumentato la propensione ai giochi d’effetto.

 

 

 

Ottima prova per il Wotan-Wanderer di Thomas Gazheli, violento sulla scena ma capace di morbidezze nel canto. Ben centrati l’odioso Alberich di Sergej Leiferkus e il Fafner di Michael Eder. Insinuante, perfetto nella dizione il Mime cantato e recitato benissimo da Peter Bronder. Nel complesso efficace la Brunnhilde di Maegan Miller, mentre il vero problema della serata inaugurale è stata la forma periclitante (e l’intonazione) di Christian Voight. La regia immagina un Sigfrido adolescente «coatto», ma lo strumento vocale del tenore, benché sempre sonoro, si è fatto via via più recalcitrante e ingovernabile.

 

 

Dal podio Stefan Anton Reck ottiene dall’orchestra palermitana un buon equilibrio negli impasti sonori, nonostante alcuni tempi davvero molto ampi e una genericità nello sviluppo del flusso narrativo. Applausi festosi e qualche defezione fra un atto e un altro. In scena fino al 29 dicembre.