COMINCIATA lo scorso giovedì, la trentunesima edizione del Tokyo International Film Festival entra in questi giorni nella sua fase finale. Come ogni anno la manifestazione è abbastanza schiacciata dagli altri eventi che affollano l’autunno cinematografico, Busan su tutti, e proprio per questo motivo molti dei lavori in competizione sono spesso opere già passate in altri festival nel corso dell’annata. I titoli di interesse però non mancano, specialmente nelle sezioni collaterali, e in particolare modo quelle dedicate al cinema giapponese contemporaneo e alle varie declinazioni che la settima arte assume ne continente asiatico.

COLD SWEAT, presentato nella sezione Asian Future, è un ritratto di come alcune leggi nell’Iran contemporaneo discrimino fortemente le donne, all’interno di un dispositivo di potere che contribuisce a mantenerle in una posizione subordinata rispetto all’uomo/marito. Il pretesto di partenza con cui il regista Soheil Beiraghi informa il film è il calcio a cinque, la storia infatti si sviluppa quando a una delle calciatrici della squadra nazionale iraniana viene negato l’imbarco su un aereo che porta la squadra il Malesia per le finali asiatiche dello sport. Il marito con cui non vive oramai da più di un anno, ma a cui è ancora formalmente sposata, le ha infatti negato questo diritto, sfruttando una legge in vigore nel Paese.

IL CALCETTO funziona quindi come contenitore per sviluppare un interessante discorso su come le leggi iraniane informino le relazioni di potere fra individui, con un’ evidente disparità – appunto – fra uomo e donna. Nel film spiccano almeno due elementi, innanzitutto l’ottima prova attoriale della protagonista Baran Kosari, ed in secondo luogo l’uso dell’interno delle automobili, siano essi taxi o macchine private, come luogo dove si svolgono spesso le conversazioni e gli eventi più importanti, quasi una tradizione nel cinema iraniano. C’è una scena nella parte finale del film che meglio di tutte esprime la quasi kafkiana manovra di soffocamento che le leggi assieme alle abitudini di una società patriarcale impone all’individuo femminile. Un lungo piano sequenza in una sala di tribunale, e non può non tornare alla mente Close Up di Kiarostami, dove il giudice non viene mai mostrato e dove le parole del marito e le leggi dello stato in materia di divorzio e di espatrio della moglie si rivelano in tutta la loro tragica surrealtà.

UNO DEI FILM presentati nella competizione Japan Cinema Splash, dedicato come ogni anno al nuovo ed emergente cinema dell’arcipelago, è stato Lying to Mom, dramma familiare con toni quasi da commedia in cui il suicidio di un figlio hikikomori getta la madre in uno stato di amnesia. Al suo risveglio la famiglia, quasi casualmente, si ritrova a mentire alla donna, inventando la storia che il figlio ora lavora in Argentina. Non si tratta di un film perfetto, un po’ troppo lungo e con qualche caduta di stile, ma la complessità del racconto e l’ottima priva attoriale di tutto il cast ne fanno un esperienza toccante e forte.

IL TEMA degli hikikomori, giovani o meno giovani che decidono di rinchiudersi in casa annullando ogni contatto con l’esterno, viene usato per indagare altre delicate problematiche quali il senso di colpa che ricade su ognuno dei familiari, e l’inconoscibilità delle reali cause di un suicidio. Il film, il debutto dietro alla macchina da presa per Katsumi Nojiri, ha inoltre il pregio di rappresentare in modo non banale e mieloso il difficile processo di assorbimento ed espulsione del dolore da parte di un nucleo familiare distrutto dalla perdita di un caro.

LA SCOMPARSA di una figlio è anche al centro di The House Where the Mermaid Sleeps, diretto da Yukihiko Tsutsumi (20th Century Boys), presentato fuori conorso e tratto da un libro di Keigo Higashino. Quando la figlia di una coppia che sta attraversando un divorzio ha un incidente in piscina ed è ridotta in uno stato vegetativo di coma, i genitori si forzano a credere che la bambina, il cui cuore batte ancora, ma la cui attività cerebrale è zero, sia ancora viva. Anche se l’idea di partenza, ovvero l’impossibilità di determinare quando avviene la morte in senso medico è interessante, con qualche scena quasi horror molto riuscita, il lavoro si perde in clichè e in una regia abbastanza piatta che ricicla, in negativo, molti dei luoghi comuni dei drammi famigliari targati Shochiku.