La deriva della comunicazione pubblica ha ormai un andamento chiaro, specialmente se a condurre le danze sono i populisti che tuonano contro le élite.

Molti punti di vista condivisibili nella denuncia del potere esercitato dalle élite per poi approdare a proposte risibili e del tutto ininfluenti rispetto i rapporti di forza nella società. È così anche per quanto riguarda la discussione in corso nel parlamento europeo sulla riforma del copyright.

A prendere la parola, questa volta, è stato Luigi di Maio.

Il ministro del lavoro ha attaccato la riforma europea del diritto di autore a partire dagli articoli 11 e 13, ritenuti il primo un regalo alle impresa dei media, il secondo una sorta di app killer per l’innovazione e strumento per introdurre una censura preventiva sulla comunicazione.

L’articolo 11 impone il pagamento ai media ogni citazione o uso di contenuti da parte di social network. L’articolo 13, contro il quale molti guru della Rete hanno espresso il loro dissenso, considera i gestori dei server i responsabili del controllo delle norme sul copyright.

La presa di posizione di Di Maio si pone dunque nel solco delle prese di posizione dei mediattivisti, per poi deragliare rovinosamente con una proposta minimale, ovvero di consentire gratuitamente l’accesso alla Rete per mezz’ora al giorno. Per trenta minuti la connessione al web è considerata quindi un diritto universale, per i restanti 1410 minuti della giornata l’accesso sarà garantito dal mercato. Cioè come accade oggi, omettendo tuttavia il fatto che ormai ci sono bar, locali, aeroporti e stazioni e città che garantiscono l’accesso gratuito alla Rete. Insomma, la classica situazione della montagna che partorisce un topolino. O, per essere più espliciti, un classico esempio di post-verità, dove elementi della realtà vengono forzate dentro uno schema logico e in questo caso politico che nega la possibilità di cambiare quella stessa realtà della quale si sussurrano le ingiustizie.

Di Maio alza tuttavia la voce, minacciando la non applicazione della norma se il parlamento europeo l’approverà, alimentando la reazione di chi indossa gli abiti dell’europeismo per difendere la rendita di posizione dei vecchi media colpiti dalla libera circolazione delle informazioni garantite dal web.

Così un euroscettico che crede nella riproposizione dei vecchi confini nazionali divenuto vicepresidente del consiglio diventa un paladino della libera circolazione della conoscenza garantita dal web cosmopolita, mentre – gli europeisti come i grandi gruppi editoriali – vogliono sovvertire il modello di business della rete in nome delle royalties che pretendono per l’accesso ai loro contenuti. Royalties che potrebbero occultare la corrosiva crisi della carta stampata e della televisione generalista o delle pay tv, tallonate nella produzione di contenuti da colossi della Rete come Netflix, Amazon, che hanno annunciato investimenti per miliardi di dollari diventando così concorrenti diretti dei broadcasting globali, a partire da quello di Rupert Murdoch, che da sempre ha indicato nella Rete il possibile killer della vecchia, cara televisione .

Ma se a Di Maio non va chiesta coerenza (in questi mesi non è stato proprio il suo punto di forza), non si può neppure pensare di delegargli la critica alla norma in via di discussione al parlamento europeo. Né, all’opposto, può considerarsi auspicabile una delega ai paladini del peak web (a pagamento, cioè) la difesa della necessità di un intervento continentale del copyright.

La partita che si è aperta al parlamento europeo richiede dunque chiarezza, punti di vista coerenti e un attento sistema di alleanze tra mediattivisti, informatici, ricercatori e, con accortezza, imprenditori operanti dentro il variegato arcipelago della peer to peer production.

Il tutto per costruire una egemonia di una attitudine critica finalizzata certo alla libera circolazione della conoscenza, ma anche per superare il business model delle major della Rete.