Le strade dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni. Così recita un vecchio adagio popolare. È questo il sentimento, quasi un riflesso pavloviano che suscita la lettura di due libri che affrontano gli effetti collaterali della cosiddetta rivoluzione del silicio. Due volumi che emergono da due centri nevralgici dell’innovazione tecnologica, il Massachussets Institute of Technology (Mit) e la Silicon Valley. Attorno al prestigioso ateneo di Boston si è sviluppato un distretto di ricerca indicato come un esempio virtuoso dell’impulso che ogni università dovrebbe dare alla produzione di manufatti tecnologici innovativi. Il Mit, tuttavia, si è contraddistinto anche per essere il campus che ha perseguito con determinazione l’analisi degli effetti sociali e politici della pervasività delle tecnologie digitali. È in questo contesto che ha preso forma La nuova rivoluzione delle macchine di Eric Brynjolfsson e Andrew McAfee (Feltrinelli, pp. 316, euro 22), volume che, come recita il titolo, evidenzia una propensione a un determinismo tecnologico che assegna alle macchine un indiscutibile potere salvifico nel risolvere i problemi delle società contemporanee. Il secondo libro, invece, è di Andrew Keen, qualificato come un guru della Rete che, dopo averne magnificato le potenzialità democratiche ed egualitarie, ne è diventato un fustigatore, arrivando a sostenere la tesi che il web ha favorito lo sviluppo di una società neofeudale, dove una ristretta oligarchia fa razzia della ricchezza prodotta dentro e fuori Internet. Il lapidario titolo – Internet non è la risposta, Egea edizioni, pp. 224, euro 24 – segna una distanza siderale di questo saggio da altri libri che invece propongono la Rete come una sorta di Eden che attende solo di essere esplorato da intraprendenti e spregiudicati giovani desiderosi di diventare miliardari con una buona idea su come sfruttare economicamente «l’intelligenza collettiva» presente nel cyberspazio.

I voucher dei perdenti

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La Rete, più che un Eden, è nel libro di Keen la rappresentazione di una distopia dove la maggioranza dell’umanità è ridotta a una folla impoverita che, con disperata tenacia, tenta di non trasformarsi in uno scarto umano da sacrificare in nome del progresso. Ma è proprio in nome del progresso che Brynjolfsson e McAfee individuano invece nel «digitale» una chance per la costruzione di una società dell’abbondanza. Ci sono sì dei problemi contingenti – la disoccupazione, l’inquinamento ambientale, le diseguaglianze sociali – ma per gestirli basta che lo Stato dia corso ad alcune misure di politica economica: una buona formazione scolastica per tutti e un reddito di cittadinanza che ha, secondo gli autori, una antica tradizione nel pensiero politico statunitense. A questo proposito, con una astuta scelta bipartisan, l’autore cita l’economista neoliberista Milton Friedman e il progetto di lotta alla povertà del presidente democratico Lyndon Johnson, l’economista liberal Paul Krugman e i think thank a favore del libero mercato, anche se il reddito di cittadinanza deve assumere la forma giuridica e fiscale del diritto di imposta negativa o di voucher che i «perdenti» possono usare per pagare le cure mediche o le tasse scolastiche dei propri figli: una forma, cioè, che non dispiacerebbe al grande vecchio del neoliberismo, quel Friedrich von Hayek che aleggia come un indicibile santo protettore della rivoluzione delle nuove macchine. Il libro dei due economisti del Mit ha però il pregio di presentare un quadro realistico della posta in gioco. Le macchine informatiche rappresentano una innovazione perché riproducono processi cognitivi considerati prerogativa dei soli animali umani. Non solo sanno risolvere complesse equazioni matematiche in maniera più veloce degli umani, ma adeguatamente programmati possono fornire diagnosi mediche, scrivere un discreto romanzo, riconoscere gli oggetti. Ogni volta che la legge di Moore «trova» conferma, le macchine digitali incorrono tuttavia nel paradosso di Moravec: una macchina non sempre riesce a svolgere cose semplici come muoversi in un ambiente dinamico e cangiante (un’autostrada, un magazzino, una città, un deserto). Gordon Moore è stato uno dei fondatore di Intel, la corporation globale nella produzione di microprocessori. Ma è noto anche per la tesi in base alla quale la potenza di calcolo di un microprocessore crescerebbe al pari della sua miniaturizzazione e alla riduzione dei costi di produzione. In molti hanno contestato tale tesi, ma le conferme sulla crescita esponenziale della potenza di calcolo delle macchine sono state di gran lunga superiori alle smentite. I limiti fisici – il silicio, la miniaturizzazione – sembrano essere prossimi, ma le macchine hanno una potenza di calcolo cresciuta esponenzialmente. Questo, però, non ha potuto evitare quel che l’ingegnere Hans Moravec ha scritto in un fortunato pamphlet degli anni Ottanta del Novecento, quando ha sostenuto un paradosso: la difficoltà delle macchine di fare cose semplici per gli umani, come reagire tempestivamente a un piccolo imprevisto.

Il paradosso di Moravec

AlfabetoApocalittico

Gli scritti di Moravec sono annoverati come una prova dell’impossibilità di una intelligenza artificiale, ma è indubbio che aveva colto nel segno quando aveva affermato che l’innovazione tecnologica sarebbe stata esponenziale, digitale e combinatoria. È su questo crinale che La nuova rivoluzione delle macchine dà il meglio di sé. I due autori segnalano che le macchine informatiche hanno raggiunto l’attuale potenza di calcolo in soli 50 anni (se prendiamo il 1973 come data del primo microprocessore): un periodo di tempo risibile rispetto alla storia dell’umanità. Che sia di tipo digitale inutile pure ricordarlo. Che sia combinatoria, invece, va un po’ spiegato. Per lo sviluppo delle macchine e del software sono state messe in campo discipline del sapere eterogenee tra loro. La fisica, la matematica e la chimica, sicuramente, ma anche la biologia, la filosofia, la linguistica (non ci sarebbero i computer senza la grammatica generativa di Noam Chomsky), la neurologia, la psicologia, la teoria dei grafi e via elencando. Non poteva mancare neppure la sociologia, che è intervenuta per spiegare alcune dinamiche collettive che hanno costituito un impulso all’innovazione nella produzione del software, come ad esempio le tesi sul capitale e le reti sociali di Robert Putnam e Mark Granovetter. Da qui l’affermazione che i centri dell’innovazione non sono da cercare solo nelle università e nei centri di ricerca, ma anche nelle relazioni sociali. La nuova rivoluzione delle macchine ha dunque come coprotagonista l’intelligenza collettiva. Certo, l’Eden che secondo i due autori è in via di costruzione ha come effetti collaterali la disoccupazione crescente, l’inquinamento, le diseguaglianze sociali: per risolverli serve lo Stato. Con buona pace dei liberisti radicali. Chi invece avverte che più di un Eden stiamo scendendo negli inferi di un nuovo e feroce feudalesimo è Andrew Keen.

haber

Di origine inglese (è cresciuto a Soho), nipote di un dirigente del partito comunista inglese, ha respirato l’aria della swinging London, ha ascoltato il rock arrabbiato degli anni Settanta, ha vissuto la «rivoluzione sessuale» prima di trasferirsi negli Stati Uniti, dove ha lavorato come pubblicitario per molti anni prima di dare vita a una impresa, fallita miseramente nel primo tonfo della net-economy nel 2001. Ha vissuto per anni nella Silicon Valley. Ha visto giovani lasciare l’università per lanciarsi nella grande corsa alla colonizzazione capitalistica del web. Ha creduto, come molti, che Internet fosse il luogo dove potesse sorgere una economia che consentisse la distribuzione della ricchezza e dove le insopportabili gerarchie sociali del capitalismo potessero essere superate, senza che questo mortificasse la creatività individuale. Un ingenuo utopista sicuramente, che si è svegliato, scoprendo che quel che immaginava più che un sogno era un incubo. Il libro ha alcuni capitoli dedicati alla cittadina di Rochester, storica sede della Kodak. Una città industriale fiorente di centri di ricerche, una classe operaia e un ceto medio fortemente sindacalizzati fino agli anni Ottanta, quando il digitale arriva nel settore fotografico. Rochester è così diventata in un soffio d’anni la città con la più alta percentuale di omicidi rispetto la popolazione, mentre interi quartieri si sono trasformati in «cittadelle fantasma». In parallelo al declino della Kodak, Keen racconta l’ascesa del fondatore di Instagram, un informatico con velleità controculturali che durante una vacanza in una comune hippie sopravvissuta al lungo inverno neoliberista, scelta perché garantiva vacanze low-cost nel mare azzurro del Messico, ha l’idea di una applicazione per consentire di caricare e condividere le foto digitali. Applicazione distribuita gratuitamente, mentre i server di Instagram si riempivano di file digitali e account individuali: dopo due anni, con poco più di quindici dipendenti, la società del nerd «alternativo» è venduta a dieci miliardi di dollari senza avere fatto un centesimo di incassi. Il giovane è diventato ormai parte della oligarchia che domina l’economia statunitense, avverte Keen. La sua applicazione è stata a tutti gli effetti una killer app, in linea con la logica che muove l’attuale economia capitalistica: chi vince prende tutto. Il giovane fondatore di Instagram è diventato sì un miliardario, ma chi ha fatto il colpo grosso è stata Facebook, che ha acquistato la società e i suoi oltre trecento milioni di utenti, aggiungendoli al big data (oltre un miliardo, gli utenti del social network) che Mark Zuckeberg aveva accumulato fino ad allora. Non ci sono corporation, imprenditori e capitalisti di ventura che l’autore risparmia. Google è la società simbolo della capacità di ridurre a merce i dati personali; lo stesso vale per Facebook, WhatsApp, Instagram, Apple e via nominando. La visione della società che emerge è quella, appunto, di un feudalesimo con pochi ricchi e tanti uomini e donne ridotti in povertà. Inoltre, spiega Keen, sono tutte imprese che danno lavoro a poche migliaia di persone, mentre mandano sul lastrico milioni di dipendenti di altre imprese.

L’inganno della condivisione

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Denunce che sono rafforzate dall’analisi sulla sharing economy. La cosiddetta economia della condivisione si basa sulla gratuità dei servizi proposte da alcune imprese. È la traduzione capitalista dell’economia del dono. Non solo i dati personali sono usati dalle imprese per venderli o per raccogliere pubblicità, ma diventano proprietà dell’impresa. E se per molti questo è il prezzo da pagare per stare connessi, per l’autore siamo di fronte a una forma di sfruttamento che equipara le società contemporanee alle più hard realtà feudali del passato. Quel che però emerge è la tendenza a una strisciante secessione dei nuovi oligarchi dalla società e a uno svuotamento della democrazia. Al di là del lessico usato da tutti gli autori, buono più per una rappresentazione teologica della realtà che non a una sua analisi critica, questi due volumi consentono, ognuno a partire da uno specifico tema, di sgomberare il campo dagli equivoci – la Rete come regno della libertà – diradare la nebbia dell’ideologia e definire la tassonomia dei conflitti in corso. La privacy come diritto universale; la riappropriazione dell’intelligenza collettiva espropriata dalle imprese. La lotta contro la povertà intesa come conflitto il dominio delle corporation sulla vita sociale e individuale. Non la soluzione dei problemi, ma sono libri che forniscono gli elementi per un agenda politica che affermi l’autonomia della cooperazione sociale produttiva.