Già nel maggio del 2011 a Parigi nel primo Internet Forum del G8 svoltosi sotto l’egida di Sarkozy, si capiva che anche nella famiglia dei padroni dalle uova d’oro della rete era in atto una «rottamazione». Il fondatore di Facebook, il giovane Mark Zuckerberg fu la vera star del simposio, segnando una rottura con i riferimenti della seconda ondata di Internet, quella già di massa (la prima fase fu un network di università e uno spazio militare). Cesura innanzitutto con il giovane-vecchio padre padrone Bill Gates. Nessuno si era azzardato a considerare fuori tempo il genio più creativo e profetico Steve Jobs, il guru di Apple, la mela diventata un brand magico tra i navigatori e amara raffigurazione (si dice) del frutto avvelenato con cui si suicidò il genio dei geni: Alan Turing, riabilitato solo nel 2009. Ma Gates-Microsoft, potenti rappresentanti della fase dello sviluppo clamoroso del settore degli anni novanta, erano il padre da uccidere, naturalmente in metafora. Perché troppo simbolicamente egemoni. I social network, del resto, hanno teso ad essere una rivoluzione nella rivoluzione, quella del Web 2.0, 3.0, e così via. Bill Gates l’artefice dell’omologazione del linguaggio del software, chiuso e proprietario. Zuckerberg, il patron della omologazione – apparentemente meno pesante, tuttavia altrettanto insidiosa – delle forme del consumo. Macchina da scrivere con straordinarie applicazioni contro la prepotente spinta verso l’individualismo di massa. La subalternità felice.
Qui sta probabilmente il nodo dello scontro ad uso del glamour mediatico di stagione tra i due leader, scomparso prematuramente il vero numero uno, il citato Jobs.
Le argomentazioni dell’uno sono incontrovertibili: i drammi del mondo, i vaccini sono certo di maggior rilievo del sogno della rete. E ben venga la missione umanitaria di un miliardario appagato e consapevole che chi di “rottamazione” colpisce, perisce della stessa arma letale. Tuttavia, l’homo novus (si fa per dire) ha colto la ricchezza sottesa ad Internet, l’essere uno straordinario veicolo di socializzazione. C’è chi ha scritto pagine notevoli sull’argomento, a partire dal maestro di tutti Manuel Castells, ma anche giovani studiose come Francesca Comunello. Sta di fatto che i social network hanno introdotto un punto di non ritorno nella macchina digitale. Quindi, il duello tra i due prim’attori è da prendere sul serio. È iniziata una quarta era della rete. Però, Zuckerberg, e con lui Google, Yahoo e i cosiddetti «over the top» non possono pensare di cavarsela mandando al museo delle cere il prode ex ricco Don Chisciotte, che si batteva quando le culture analogiche conservative dominavano il villaggio globale. Se i social network si riducono a un gioco generazionale, è come usare una Ferrari per andare a fare la spesa nel centro storico. Intanto, è stato ricordato, paghino le tasse dove accumulano valore. E poi comincino a prendere sul serio le regole sulla privacy prima che il datagate sommerga tutto e tutti.
Soprattutto, le tecniche siano messe al servizio dell’aumento delle conoscenze, della diffusione dei saperi, della ri-costruzione di seri assi produttivi post-fordisti. Cioè , si creino opportunità e occasioni non precarie di lavoro. È il momento di ragionare su tali questioni, evitando di cassare rapidamente una lite tutt’altro che peregrina. Anzi, piena di verità. Chissà se, dopo la sbornia televisiva dell’età berlusconiana, anche in Italia i temi della rete mai entreranno nei linguaggi della “normalità”. Qui, non nei proclami, passa l’intelaiatura dell’Agenda digitale. Ma lassù qualcuno ama davvero Internet o rimane solo il richiamo censorio del copyright, dei controlli preventivi, dei filtri? Questa oggi è la Politica. Hic Rhodus, hic salta.