Angelica, giovane donna di 27 anni, vive a Tambaú, a nord della megalopoli di San Paolo. Il suo lavoro: «addestrare» robot aspirapolvere, piccoli elettrodomestici dotati di telecamere intelligenti che riconoscono e evitano ostacoli. Anche i più inattesi, come gli escrementi degli animali domestici. Angelica è retribuita per scattare foto delle deiezioni del suo cane. Le sue immagini, etichettate e catalogate, vengono pagate solo pochi reais su una delle cinquantaquattro piattaforme di micro-lavoro attive in Brasile.
L’esempio di Angelica è tratto dal rapporto Micro-lavoro in Brasile. I lavoratori dietro l’IA? pubblicato il 19 giugno dal centro Latraps (Brasile), in collaborazione con il mio gruppo di ricerca DiPLab (Francia). Per anni, con i miei colleghi e studenti ho condotto inchieste come questa in diciannove paesi in Europa, Africa e America Latina. Alla domanda: «Dove viene prodotta l’intelligenza artificiale?», oggi noi diamo una risposta originale: non nella Silicon Valley o in grandi centri tecnologici dei paesi del Nord. I dati, ingredienti fondamentali dell’IA, vengono prodotti nei paesi emergenti e in via di sviluppo.

FOTO, VIDEO E TESTI sono filtrati e arricchiti dai lavoratori delle piattaforme internazionali come la famigerata Mechanical Turk di Amazon, che li paga a cottimo per realizzare piccoli progetti online che durano appena qualche minuto: trascrivere, registrare, taggare, moderare, ecc. Ci sono anche altre grandi imprese quasi sconosciute come Appen o Telus, e piattaforme più piccole come la russa 2captcha e l’africana Sama. Nel gennaio scorso, Sama è stata oggetto di rivelazioni da parte della rivista Time, la quale ha scoperto che centinaia dei suoi micro-lavoratori in Kenya hanno «addestrato» ChatGpt.
L’azienda produttrice della nota intelligenza artificiale generativa ha ammesso di averne reclutati altri in India, Turchia, e nelle Filippine.
La mappa globale che emerge dalle nostre ricerche attesta la costituzione di un vero e proprio un esercito industriale composto principalmente da persone tra i 20 e i 30 anni (ma anche quarantenni e pensionati nei paesi del Nord). In alcuni paesi, la maggioranza è costituita da donne con figli a carico che accettano di essere pagate meno di due euro all’ora. Anche nel Sud globale, questi salari non sono sufficienti per una vita dignitosa.

IL FENOMENO è strettamente legato alla disoccupazione e all’economia informale. I micro-lavoratori hanno regolarmente un livello di istruzione superiore alla media del loro paese, ma non riescono ad accedere al mercato del lavoro e guadagnano realizzando «micro-task», ovvero brevi progetti retribuiti pochi centesimi.
In America Latina, il paese con la più alta proporzione di micro-lavoratori rispetto alla popolazione attiva è in realtà il Venezuela, che da oltre dieci anni affronta una grave crisi politica ed economica. I lavoratori venezuelani sulle piattaforme si specializzano nell’annotazione di immagini per veicoli autonomi, e nel riconoscimento facciale e vocale. Si tratta di micro-task ancora più brevi e semplici del normale. Il motivo è tecnico. In Venezuela, i computer sono obsoleti e, nonostante l’elettricità gratuita, i blackout sono frequenti.
Qui i micro-lavoratori guadagnano meno rispetto ad altri paesi, il che li rende molto ricercati da aziende sviluppatrici di IA che si trovano negli Stati Uniti, Canada e Germania.

IN VENEZUELA, l’arte di arrangiarsi è diventata un paradigma. Intere famiglie e caseggiati si organizzano, condividendo computer e smartphone o utilizzando account comuni.
In Africa, è il Madagascar che attira aziende tecnologiche occidentali grazie a zone franche con agevolazioni fiscali. I clienti, soprattutto francesi, esternalizzano la moderazione di contenuti, la digitalizzazione di documenti e la registrazioni di messaggi per l’IA vocale. Il micro-lavoro attira giovani istruiti che lo considerano come un punto di ingresso nel mercato dell’impiego. Tuttavia, i magri guadagni (attorno a cento euro al mese) non permettono di vivere nella capitale o nelle città turistiche della costa. E i lavoratori, presi in questa trappola della povertà, non possono lavorare a distanza, in zone rurali dove la connessione internet è instabile o costosa.

IL MICRO-LAVORO SOLLEVA questioni importanti. La prima riguarda la crescente precarietà globale. La gig economy e le aziende come Uber o Glovo avevano già generato conflitti contro lo sfruttamento e rischi per i lavoratori. Le piattaforme di micro-lavoro a distanza hanno effetti analoghi, ma coinvolgono una popolazione dieci volte più ampia e dispersa a livello mondiale. I lavoratori dell’IA accettano incarichi frammentati, spesso pagati a cottimo, senza sicurezza occupazionale a lungo termine.
Questo fenomeno mette in luce l’aumento dell’insicurezza e della devalorizzazione del lavoro, con implicazioni sociali ed economiche di vasta portata. Senza dimenticare le implicazioni tecnologiche, nel caso in cui l’IA dovesse essere sempre più prodotta manualmente nei paesi del Sud.

 

SCHEDA

C’è vita oltre il lavoro è il titolo della giornata di riflessione che si svolgerà oggi presso il Monk di Roma sulla condizione umana e le dinamiche sociali: al centro, un ripensamento radicale del lavoro. In un mondo ogni giorno più accelerato, in cui i rapporti sono sempre più mediati dal digitale e i legami si indeboliscono a causa del venire meno di quelle narrazioni e ritualità che stanno alla base di ogni comunità, diventa sempre più importante aprire dibattiti attorno al bene comune. Fra gli ospiti, Andrea Colamedici, Maura Gancitano, Miguel Benasayag, Vito Mancuso, Viola Garofalo, Francesca Coin, Giovanni Truppi, Naip, Antonio Casilli, Jennifer Guerra, Sarah Victoria Barberis, Lorenzo Gasparrini e Ultima Generazione. L’evento è realizzato da Tlon, in collaborazione con Scuola Holden, Scomodo e Monk.