Il divario che separa la musica classica – più o meno contemporanea, più o meno colta – da un pubblico non necessariamente «di nicchia» sembra frutto di scarsa conoscenza, prima ancora che di una diffidenza elaborata. Il vuoto, cioè, è parte integrante della sostanziale apatia con la quale ampie schiere di ascoltatori trasversali, diversi per età e provenienza culturale, si dispongono nei confronti di quella offerta musicale, che non andrebbe «subita» come musique d’ameublement, perché acquisisce senso e spessore dal costruttivo rapporto dialettico con chi la riceve.

L’ascolto cosciente, in questi casi, rende complesso, dunque virtuoso, il processo di scambio emotivo tra spettatore e prodotto (l’esperienza estetica nasce dal corto circuito tra l’opera d’arte e chi la consuma) opponendo un ostacolo intellettuale a un meccanismo che, per frettolosa convenzione, si considera voluttuario. Eppure, che la musica rappresenti una elaborazione di pensiero variamente consapevole è non semplicemente un dato condivisibile ma la condizione necessaria ad ammettere forme diverse e plausibili di composizione, di interpretazione e, infine, di ascolto. Si rischia, negando questo assunto, di mortificare sia il lavoro creativo dell’artista che la capacità critica di chi gli sta di fronte, in un sano rapporto dialettico.

Non «ostacolo» bensì «strumento», l’esercizio del pensiero andrebbe normalmente praticato dal pubblico, soprattutto da chi sia provvisto di strumenti culturali e intellettuali per farlo e che invece evidenzia, con frequenza sorprendente, un distacco non riconducibile a questioni di gusto. L’accumulo di livelli di mediazione tra consumatore e prodotto – che spesso limita la percezione all’élite – diventa alibi a supporto di una fruizione pigra e distaccata. Non diversamente da un quadro, una sinfonia si carica di senso estetico in proporzione allo stimolo a riflettere che eserciti nell’interlocutore, ricavando significato non solo dagli esiti formali ma anche, o soprattutto, dai suoi presupposti concettuali. Che un interlocutore culturalmente avveduto, possa (e forse «debba») farsi carico di tracciare – ove possibile, non soltanto a proprio beneficio – quella trama di collegamenti da cui trae respiro un prodotto dell’ingegno, è inseparabile dalla sua possibilità di goderne. In campo musicale, tuttavia, il percorso si completa a fatica, forse a causa dell’esclusione da un alfabeto, e dunque da un linguaggio, effettivamente specifico e tendenzialmente considerato per adepti.

Nel timore suscitato da questa esperienza vissuta come «iniziatica», sembra dunque venire meno l’intento costruttivo dell’ascoltatore, che precipita in una indolenza dove il sospetto si somma all’indifferenza; e non è un caso che di molti lavori musicali le virtù si rivelino a scoppio ritardato, una volta acquisitane la chiave d’accesso. Oggi, tuttavia, vista la diffusa disponibilità di molte metodologie di analisi, di un sistema di comunicazione capillare fino all’invadenza, di un avvicinamento sempre più sinestesico all’arte, tutto questo appare meno giustificabile. L’esercizio di ascolto, comprensione e godimento del bene musicale sottende la capacità di azionare meccanismi di espansione del pensiero naturalmente assimilabili a tragitti di approfondimento filosofico, scientifico, generalmente speculativo.

Alla luce di ciò, il distacco di troppi intellettuali rispetto alla musica classica sembrerebbe persino una scelta precisa: un’anomalia, comunque. Nella autoindulgente asserzione di tanti ascoltatori per caso («La musica mi piace, ma non la capisco») si nasconde un pervicace negarsi qualche varco verso l’universo espressivo della musica classica, considerato altro da sé, sottraendosi alla elaborazione di un metalinguaggio che, senza tecnicismi, apra la strada al piacere intellettuale, complemento ovvio di quello emozionale. Peccato, perché questa sottrazione ai compiti civili che l’intelligenza impone, si traduce nella sottovalutazione e nello spreco di una parte essenziale dell’invenzione musicale e artistica.