Quando uscì la prima edizione di questo libro di Carlo Petrini, Buono, pulito e giusto, ne scrissi subito su queste pagine perché – sebbene il messaggio del suo autore fosse ben conosciuto dai lettori de il manifesto per essere egli stato uno dei fondatori del nostro movimento e anzi votatissimo consigliere comunale del PdUP di Bra (ora persino autore della prefazione per le edizioni San Paolo all’Enciclica Laudato sì di Papa Francesco) – il volume chiariva bene qualcosa che forse non era stato ancora bene afferrato da tutti: che «Slow Food», nata dall’ARCI-Gola, e ormai diventata una grande organizzazione internazionale, non aveva come interlocutori le privilegiate élites dei buongustai, bensì i contadini. Adesso che, a dieci anni di distanza, il libro viene ripubblicato (edizioni Slow Food- Giunti, pp. 352, euro 14.50) ho voluto riparlarne, non solo perché nel frattempo sono cresciute un altro paio di generazioni che vanno invogliate a leggerlo, ma perché anche Slow Food è cresciuta e per molti versi cambiata, diventando oggi un punto di riferimento politico essenziale per chi è consapevole che occorre – e molto in fretta – cambiare il nostro modo di vivere, produrre, consumare, rapportarsi alla natura.

Avversari potentissimi

Quando il libro uscì c’era stata da non molto tempo – ottobre 2004 – la prima assemblea della nuova creatura nata dal grembo di Slow: «Terra Madre». Una straordinaria conferenza con 4.888 contadini venuti da 130 paesi del mondo, alloggiati dai torinesi della città e dei paesi vicini (dove molti scoprivano con curiosità, per la prima volta, il «mistero» dell’acqua corrente) e riuniti nei giganteschi spazi del Lingotto, simbolo per eccellenza delle passate glorie dell’industria moderna. Da allora, con scadenza biennale, il variopinto popolo di Terra Madre è tornato a riunirsi a Torino: e a settembre prossimo, anzichè incontrarsi nel vecchio stabilimento della Fiat, i partecipanti dilagheranno per le strade, all’aperto e al coperto, per discutere come promuovere l’alternativa, per illustrare a chi passa cosa come e perché sono proprio loro, con il loro modo di coltivare e distribuire, l’avanguardia della modernità, non marginali comunità rurali residuo del passato. L’area del movimento oggi si è estesa, è arrivato l’uso del computer per creare collegamenti utili a sostenere esperimenti di distribuzione che sfuggano al monopolio delle grandi catene di supermarket, per frenare la manipolazione dell’agroindustria che avvelena con i suoi prodotti gli umani e la Terra. È bello scrivere una volta tanto di qualcosa che ha segnato qualche punto, che ha conseguito qualche vittoria, che è progredita. Ci siamo sempre meno abituati. Ebbene, sulla questione del cibo, possiamo ben dire che in questi anni è maturata una consapevolezza critica che va oltre i confini del problema alimentazione per investire, più in generale, la riflessione sul nostro tempo, diventando critica alla modernità retrograda del capitalismo.

Finte diversità

Proprio perché il cibo è esperienza diretta di tutti, è un punto di partenza forte per pensare, l’approccio più diretto all’ecologia, di cui è del resto componente fondamentale. Perché le coltivazioni industriali, per via della chimica che le sostiene, possono diventare mortali per l’ecosistema, per la salute, per la biodiversità. E per la distruzione di qualcosa che non è solo natura, ma è connessione sociale, un bene altrettanto essenziale in un’epoca di destabilizzante distruzione di ogni legame comunitario: il paesaggio, innanzitutto, stravolto da nuove colture estensive che cancellano il millenario geroglifico complesso della flora che ha disegnato la geografia e ha reso ogni punto della Terra diverso dall’altro, riconoscibile da chi vi è nato e vuole ricordarselo. Distruggerlo aggiunge altra carica allo sradicamento. Cui non si sopperisce con il dilagare artificioso dei mille ristoranti cosiddetti etnici che invadono le città, finta diversità esteriore che nasconde la standardizzazione di fatto operata dai prodotti con cui vengono confezionati i menù. Ne resta un carnevale senza polpa anche grazie alla straordinaria idea della ex ministra dell’istruzione Gelmini, che decise anni fa di abolire la geografia dagli insegnamenti scolastici, lasciando così le nuove generazioni, magari esperte a trovare ogni possibile paese della terra sul computer, ma private del gusto di questa individuazione perché prive di ogni visione generale e articolata , di ogni determinazione toponomastica complessiva, del senso delle distanze, degli spazi, della prossimità con la terra: insomma, derubate della geografia che è molto di più della somma dei suoi punti, e dei loro ristoranti. Terra Madre non è solo una filosofia, anche se questa è decisiva. È anche organizzazione, tentativo di connettere la filiera del cibo: chi coltiva o alleva, chi consuma, riducendo al minimo la pesantissima mediazione commerciale. Si sono ormai aperti nuovi canali di comunicazione fra i tanti fronti dell’agricoltura ed è stata sollecitata la creazione di nuovi modi di gestirsi delle comunità: i Mercati della Terra (quelli allestiti direttamente dai contadini); i GAS (Gruppi di acquisto solidale), collegati con agricoltori sostenuti dalle comunità. E anche moltiplicazione di Orti cittadini, nelle scuole e nei quartieri. Per sollecitare autoconsumo, ma anche per reimparare a conoscere i ritmi della natura. È ancora poco, certo. Si lotta contro un avversario potentissimo che è non a caso riuscito anche a impadronirsi dell’Expo di Milano, da cui non a caso – pur essendo dedicata al cibo – erano stati espunti coloro che lo producono: i contadini.
Anche qui, a ridar loro visibilità, è stata Terra Madre, che con un raduno straordinario ha portato nel capoluogo lombardo, a latere dai padiglioni ufficiali, parecchie migliaia di giovani coltivatori di tutto il mondo per dar voce alle loro richieste. È lì che abbiamo potuto constatare che c’è oramai – anche questo è un successo – un inizio di ritorno alla campagna di gruppi di giovani che abbandonano le zone urbane. Per necessità o per scelta. Ma è chiaro che il nodo vero da sciogliere è quello della remunerazione del lavoro contadino. Indecente. Diventata così bassa per via di decenni di disprezzo, di emarginazione, di svalutazione del loro lavoro.

Pratiche virtuose

La cosa forse più importane che hanno fatto Slow e Terra Madre è oggi proprio quella di aver riproposto orgogliosamente la funzione del contadino, di aver rivalutato i loro saperi preziosi e insostituibili. «Intellettuali della terra», li ha definiti Petrini. Più giusta remunerazione per il lavoro contadino non vuol dire che il ritorno ad una agricoltura non globalizzata e non standardizzata sarà più costoso. Bisogna sfatare la leggenda che le porcherie incellofanate che si acquistano al supermarket siano un modo per sfamare gli affamati di ieri e i tanti che tornano a esserlo nelle nostre evolute regioni. Basterebbe considerare i costi immensi, economici immediati e ecologici diluiti nel tempo, dei trasporti da un continente all’altro dei prodotti delle multinazionali per rendersene conto. E poi quelli della assordante pubblicità che accompagna merendine e scatolame. E poi della spesa sanitaria, per riparare ai danni alla salute che quei prodotti producono. E così via. Ma come si sa il mercato non è capace di calcoli tanto complessi, conosce solo il profitto immediato che ha davanti al naso, tanto i guasti non li paga chi lo intasca ma la comunità intera.