Come dare corpo e anima, qui e ora, dentro una transizione melmosa e regressiva, al soggetto dell’alternativa? Come uscire dalla palude di tutte le nostre sconfitte, ridando vigore ad una speranza che si alimenta di pensiero critico e si struttura come cooperazione consapevole e comunità di senso? Non credo che servano scorciatoie metodologiche o invenzioni politicistiche: lungo e impervio è il sentiero che abbiamo dinanzi, pesa l’affanno e spesso il rancore di tutte le nostre biografie, rischiamo ad ogni tornante di separare l’ansia di futuro dalla cognizione profonda del passato.

Soprattutto rischiamo di discutere ideologicamente del “che fare?”, come se non fosse squadernato dinanzi ai nostri occhi (spesso accecati dal dolore) il terreno di un conflitto di civiltà che non solo recide legami sociali e svuota il lavoro di valore sociale, ma che colpisce e falsifica ogni idea di umanità.

Voglio dire che la nostra ricerca – il duro cimento di una nuova Weltanschauung della sinistra – non può essere una fuga idealistica dalla politica, e cioè da un agire collettivo che si oppone alla frantumazione sociale e alla solitudine individuale, e cioè dal praticare quei conflitti che sono pedagogia del cambiamento e prefigurazione di nuove e più ricche relazioni tra le persone e tra i popoli. Anche la fenomenologia nevrotica del ceto politico delle sinistre – su cui insistono molti interventi pubblicati da il manifesto – non mi pare possa essere assunta a ragione e causa della nostra sconfitta: direi che ne è una conseguenza, un epifenomeno non spiegabile con le lenti del soggettivismo.

La “rivoluzione passiva” che ha accompagnato come un’ombra il ciclope delle politiche liberiste ha rimodellato sistemi economici e corpi urbani, ha ripensato la vita e i bisogni e i desideri, investendo su quel codice di “individualismo proprietario” sulla cui antropologia ha scritto pagine memorabili Pietro Barcellona. Si è ribaltato un intero vocabolario, quello che dalla rivoluzione francese fino alla grande eresia del Sessantotto scavava nell’immaginario soprattutto degli oppressi le trincee di una nuova coscienza: solidarietà, eguaglianza, liberazione, sono parole spolpate vive e sputate via dalla grande macchina digestiva del turbo-capitalismo finanziario. Appunto, come diceva la Lady di ferro: la società non esiste, esistono solo gli individui. Molto più di una proposta politica, con la conseguente produzione di una politica imprigionata ad un vincolo esterno: l’immodificabilità (ontologica) del sistema. Qui siamo, in una dimensione iper-ideologica e iper-realistica, dove la società coincide col mercato, la cittadinanza diviene consumo, le persone sono clienti.

Non cerco alibi per i nostri errori, ma vorrei leggerli nel loro contesto reale. La mercantilizzazione delle città e della natura, la riduzione del lavoro a questione economico-corporativa, l’aziendalizzazione progressiva delle funzioni sociali dello Stato, la precarizzazione della vita: in questo gorgo è stato risucchiato tutto il mondo nostro, la democrazia di massa e il moderno costituzionalismo democratico, persino un’idea di fraternità nel comune destino del genere umano. Anche la discussione sulla forma-partito va collocata a questo livello: altrimenti resta solo il volontarismo velleitario e il marketing elettorale. Nominiamo i problemi, senza esorcizzarli: sono crepate tutte le sinistre novecentesche, non solo il comunismo irreale delle società dell’Est ma anche quel riformismo socialdemocratico che ha spento la sua stella ponendosi come variante morbida della rivoluzione liberista.

Nello scontro animalesco tra oligarchie europee e Tsipras, una contesa cruciale sulla natura e sul destino dell’Europa, i riformisti continentali sono stati un’eco stridula della voce della Merkel, al massimo criticando l’etica o l’estetica dell’austerity ma mai smontandone il fondamento ideologico e la brutale architettura politica. Il selvaggio realismo di Berlino e di Bruxelles ha comandato il verbo della lotta contro il debito pubblico, che è stata tradotta automaticamente in lotta al Welfare e ai diritti sociali. Che paradosso: quelli che hanno spinto l’economia nel vortice della finanza creativa quanto tossica, quelli che hanno protetto la separazione progressiva del business dal lavoro e dalla produzione, quelli che hanno avvelenato mercati ed esistenze, sono gli stessi che ci indicano moralisticamente rigore e austerità come via obbligata da percorrere: nel nome del futuro, manco a dirlo. Mentre loro continuano a divorare tutto il presente e lasciano sul marciapiede un esercito di nuovi poveri, generazioni di scarto e altri effetti collaterali.

ll Capitale ha rovesciato la sua crisi sui suoi naturali antagonisti (il lavoro subordinato e i giovani ), la crisi della globalizzazione liberista si è presentata come pura “natura”: e nelle mille drammatiche fratture che si sono aperte – tra centro e periferia, tra vecchi e giovani, tra indigeni e stranieri, tra ultimi e penultimi – si sono radicate le culture della paura e dell’intolleranza. Le dimensioni di massa della disoccupazione e della povertà, con la progressiva proletarizzazione del ceto medio e del lavoro intellettuale, si traducono in incubazione di nazionalismo, xenofobia, fascismo. Il muro di Orban è come un promemoria di quella recente storia europea che torna, nel lessico dei media e della politica, come linguaggio delle nuove élite populiste: non più come folclore delle svastiche nelle curve degli stadi, ma come paradigma di una politica che divorzia dalla convivenza. Il fascismo come grande rimosso (retoricamente come grande rimorso) della modernizzazione autoritaria del vecchio continente.

Allora io penso che la sinistra del futuro debba fare dell’europeismo sociale e solidale la propria bandiera: ripartendo dalla messa in discussione dei trattati, stracciando le carte che hanno dato forma giuridica di legge ai totem e ai tabù del liberismo. Parlo di un orizzonte ideale ma anche di pratiche politiche. A partire dalla costruzione di una rete delle città-laboratorio, delle amministrazioni locali progressiste, che sul tema cruciale dell’accoglienza dei migranti e dei profughi, dei bisogni abitativi e di assistenza dei soggetti vulnerati dalla crisi, della tutela del paesaggio e della bellezza, delle esperienze di conversione ecologica della mobilità piuttosto che della gestione dei rifiuti, siano in grado di evocare un nuovo civismo, un buon vivere, una trama di socialità in cui le persone si riconoscono ciascuna nella propria diversità.

Ecco: un nuovo soggetto non nasce in laboratorio, non nasce nella furbizia separata del politico, né nella pretesa ingenuità del sociale. Nasce dentro uno sguardo nuovo sul mondo, autonomo non perché vocato all’estremismo o al minoritarismo ma perché capace di stare nei conflitti. Uno sguardo all’altezza dei dilemmi di fondo del nostro tempo, senza nostagia dei miti defunti, ma curioso, aperto, libero da pregiudizi. Non dobbiamo scegliere tra sinistra degli apocalittici e sinistra degli integrati: ma avere cura di una domanda sociale di cambiamento che oggi impatta duramente con l’offerta populista, quella del populismo dall’alto di Renzi e quella del populismo dal basso di Grillo. Ma anche la “cosa immonda” di Salvini ci interroga e ci chiede di essere lì, nelle frontiere più esposte alla crisi e al lavoro sporco delle destre.

C’è bisogno di tutti, ma c’è bisogno che tutti abbiano questa consapevolezza: non ci salverà la somma algebrica di tutte le piccole cose che ci sono. Ovvio che occorre liberarsi da vecchi risentimenti e da rissosità a sinistra, che oggi appaiono persino patetiche. Ma solo una cultura politica forte, una cultura programmatica fondata sulla connessione tra saperi e competenze, profondamente attraversata dalle parole e dalla libertà delle donne, bonificata da ogni forma di integralismo culturale: solo questo, così penso io, può salvare, qui e ora, quella speranza politica a cui diamo il nome di sinistra.