In Friuli, il Pd della Leopolda è finito al tappeto al secondo round elettorale. Le urne di primavera erano state un campanello d’allarme: sconfitte clamorose a Trieste e Pordenone. Domenica una replica impietosa a Monfalcone e Codroipo, che squaderna le dimissioni della segretaria regionale Antonella Grim e mette spalle al muro la governatrice e vice di Renzi al Nazareno.
Debora Serracchiani si è presentata ieri agli studenti di Pubbliche relazioni nella sede universitaria distaccata di Gorizia dopo un’altra notte da incubo. Al ballottaggio delle comunali di Monfalcone, il verdetto è stato senza appello: il sindaco uscente Silvia Altran non è andata al di là di 3.987 preferenze (37,5%). Al primo turno erano 3.612. Ha trionfato la leghista Anna Cisint con il 62,5% perché gli originali 5.256 voti della coalizione compatta di centrodestra sono lievitati fino a 6.642. Con affluenza identica (51%) nei due turni. A Codroipo, in provincia di Udine, la replica. Il sindaco uscente Fabio Marchetti, uomo di An approdato fra i berluscones, ha stracciato il dem Alberto Soramel con 4.179 voti contro 3.535.
Ma è Monfalcone – 28.258 residenti «ufficiali», lievitabili fino a 35 mila reali – che rimbalza sotto i riflettori nazionali, non solo per l’esultanza di Salvini. Era dal 1975 che il municipio rappresentava la roccaforte della sinistra, via via più sbiadita. Un’epopea cominciata con Gianni Maiani (Psi) e culminata con i decenni di Adriano Persi e Gianfranco Pizzolitto. Fino al 2011, con l’elezione di Altran, sonoramente bocciata nella richiesta di secondo mandato.
Spiega Paolo Medeossi dalle colonne del Messaggero: «Basta aver letto il recente libro sulla mafia a Nord-est. Una città cresciuta per sua natura attorno e grazie alla grande fabbrica (il cantiere navale) e a un sistema di integrazione che nei decenni ha messo insieme bisiachi, friulani, giuliani, istriani, meridionali (tantissimi pugliesi di Gallipoli, per esempio), adesso sembra alzare bandiera bianca davanti a una situazione arrivata al livello di guardia».

Monfalcone così incarna la parabola del Pd renziano e dell’intero centro-sinistra nella regione a statuto speciale. Elettori in fuga, modello amministrativo al capolinea, partito allo sbando. È già scattata la faida, ma si rischia la paralisi (come in Veneto con Lorenzo Guerini commissario, in attesa che il Pd faccia finalmente i conti politici con la tragedia delle Regionali 2015 e della sconfitta di Venezia). In teoria, nel 2017 in Friuli ci sarebbe il congresso che potrebbe essere gestito da Francesco Martines, sindaco di Palmanova capace di ottenere in primavera il bis nelle urne. In pratica, la crisi politica si proietta fino alle urne del 2018. Serracchiani in questo scenario è tutt’altro che entusiasta di ricandidarsi, coltivando ambizioni romane. E la vecchia ditta sembra pronta a scatenarsi, non solo con Roberto Cosolini azzoppato a Trieste dai renziani prima ancora che dalla resurrezione del centrodestra con Roberto Dipiazza.
Tutto alla vigilia del referendum costituzionale, che rischia di compromettere gli equilibri perfino a Udine. Serracchiani intanto gioca solo in difesa, replicando alle critiche di Bersani su Monfalcone: «Non stravolga la realtà ed eviti polemiche fuori luogo. Nel Pd si lavora e si dovrebbe sempre lavorare per l’unità, mai per dividere». Peccato che, almeno in Friuli, la spaccatura verticale sia proprio sulla sua gestione politica alla luce dei numeri incolonnati nell’ultimo semestre dai candidati Pd.
Arduo consolarsi con il referendum che ha sancito (76% di sì) la fusione fra i comuni di Gemona, icona del terremoto, e Montenars. Tanto più che il 64% ha votato no a quella di Manzano e San Giovanni al Natisone. Un altro, bruttissimo presagio per Serracchiani?