L’iniziativa di tradurre Morte di un maestro del Tè, da più parti e più volte sollecitata, è finalmente giunta in porto per merito della casa editrice Skira (trad. di Gianluca Coci, pp. 189, euro 16,00).

Opera della piena maturità di quel devoto cultore della compostezza che è stato Inoue Yasushi, autore di decine di racconti e romanzi, Honkakubo ibun, questo il titolo originale (in italiano ‘Il testamento di Honkakubo’) fu pubblicato nel 1981 ed è un romanzo storico ambientato tra il sedicesimo e il diciassettesimo secolo. Come nell’esordio del Nome della rosa si potrebbe esclamare: «Naturalmente un manoscritto». Il narratore dichiara di pubblicare il diario di Honkakubo, discepolo di Sen No Rikyu, vissuto tra il 1522 e il 1591, del quale vengono rievocati gli ultimi giorni di vita. Rikyu fu monaco buddista e Maestro del Tè; riformò la Cerimonia del tè (Cha no yu) e fondò una scuola nella quale praticare la Via del Tè secondo l’indirizzo denominato Ura Senke. Fu condannato al seppuku, il suicidio rituale, dal suo signore, il taiko Toyotomi Hideyoshi. Il romanzo consiste nella trascrizione di questo diario, all’interno del quale si trovano ulteriori trascrizioni di documenti che rendono via via più ardua la ricostruzione dei fatti. Dal romanzo è stato tratto un film nel 1989 in cui il regista Kei Kumai ha posto gran cura nel restituire alle immagini il lascito etico ed estetico di Rikyu.

Morte di un maestro del Tè è anche romanzo dolorosamente allegorico sul Giappone del secondo dopoguerra e sul senso della storia e del tempo. C’è un tempo scandito dalla storia, sottoposto a mutamento, e un tempo autentico, immobile e dilatato, dove tutto accade una volta per sempre in un prolungato istante. E in tale dimensione quasi proustiana si avventura la scrittura di Inoue, una dimensione nella quale lunghi silenzi si accampano tra le frasi e tra una domanda e una risposta scorrono molte parole inespresse. I piani narrativi si sviluppano uno dentro l’altro fino a che ricordi, sogni, visioni confondono i loro confini con quelli della realtà. I temi sono la fedeltà alla parola data, la nobiltà che viene da una devozione totale e priva di interessi egoistici, la bellezza del gesto decantato dalle passioni. In una parola la ricerca del Wabicha, la bellezza struggente e solitaria, che è impossibile comunicare o insegnare. Dunque i valori sommi del decoro e del rispetto delle distanze, quello che i giapponesi indicano con la parola ma, e che noi facciamo fatica a comprendere e a tradurre, ma che invece afferra proprio il cuore di un aspetto decisivo della cultura nipponica, ovvero il rispetto della distanza tra gli individui tra loro e tra gli individui e le cose. Una distanza che impone al linguaggio di arrestarsi al di qua dell’esprimibile e si condensa nel silenzio di un gesto stilizzato.

Morte di un maestro del Tè è un libro chiuso che esige un avvicinamento lento e progressivo, quasi l’espletamento di una cerimonia. Nulla viene espresso in forma diretta, così come nulla di diretto viene dal maestro. Honkakubo, cultore della Via del Tè, deve trovare da sé le risposte che cerca dal maestro. Anche chi legge ha l’impressione di trovarsi davanti una serie di porte, di paraventi leggeri e semitrasparenti che schermano la vista del contenuto vero e proprio della narrazione e la traduzione riesce a rendere appieno la qualità di drammatica, violenta astrazione all’interno della quale si collocano i gesti e le parole dei personaggi coinvolti. Quelle ‘porte’, quegli ostacoli alla comprensione piena della storia, non sono accidentali, ma rispondono al fine preciso di mettere alla prova la determinazione del lettore, impegnato a cercare la propria Via. Il discepolo insiste nel voler comprendere le ragioni che hanno portato il suo maestro al suicidio rituale. Rikyu è stato sempre rispettoso delle leggi e osservante delle regole che vincolano il subordinato al suo signore. Eppure il signore ha ordinato la sua morte. Intorno a questo punto oscuro si svolge l’esercizio della memoria di Honkakubo e degli altri discepoli. Così che la loro vita diventa un protratto esercizio di meditazione, la loro Via del Tè, la disciplinata risposta agli insegnamenti del maestro.

C’è un episodio che rende chiaro tutto questo. A un certo punto Honkakubo racconta di essere stato convocato dal suo maestro: c’è una riunione importante e lui deve stare immobile dietro un paravento con una candela in attesa che gli venga chiesto di fare luce ai convenuti. Il discepolo è elettrizzato e intimorito dalla circostanza: non vede nulla, sente pochissimo e quando arriva l’ordine di fare luce il paravento scorre per un momento, lui introduce il lume, getta un’occhiata fugace per ritrarsi subito dopo nell’ombra. Cosa ha potuto cogliere? Quasi nulla: il suo maestro, il suo amico e la figura indistinta di una creatura mostruosa. Il giovane si arrovella per tentare di mettere insieme i frammenti di quella scena e di ricostruirne il senso, e quello diventa il suo lavoro, il compito che assegna a se stesso. E così anche dopo la morte del maestro, il monaco continua a tenere acceso il ricordo nel desiderio di afferrarne i sensi riposti. Ma invano. Come anche nella Lotta dei tori (del 1949 e pubblicato da Skira lo scorso anno) l’esito del combattimento, che presenta i contorni incerti di una visione indistinta ed enigmatica, è meno essenziale della contemplazione della lotta.

Evidente la gerarchia dei rapporti vigenti tra gli individui, tutti personaggi maschili che convergono verso un punto centrale che è il campo di guerra. Il tè viene bevuto durante le pause di un conflitto militare che sembra non accidentale, ma sostanziale di quella società. La cerimonia del tè ritualizza il momento riflessivo in una momentanea sospensione della guerra, teatralizzazione del momento preparatorio all’azione. Nei Pensieri del Tè Guido Ceronetti aveva richiamato l’attenzione sulla potenza della bevanda orientale in termini meno bellicosi: col tè «nel buio molte finestrine tornano vive» e grazie al tè si può «guardare da una pausa di connessione quel che è sconnesso e lacerato».

La cerimonia del tè non ha nulla a che vedere con le tazze di tè che impreziosiscono le pagine dannunziane e che donne eleganti e languide sorbiscono nei convegni amorosi. In Inoue il tè è un elemento di altissimo valore simbolico. La semplicità dei contenitori, delle tazze, delle foglie di tè costituisce la loro preziosità. Ed è davvero difficile per un occidentale comprendere quanto lunga e difficile da raggiungere sia la conoscenza di quest’arte all’apparenza tanto semplice. Ogni oggetto, ogni minimo gesto ripete un segno fissato in un tempo lontano. Il contenitore, il bollitore, la tazza hanno un valore inestimabile; i movimenti di rotazione delle tazze, la piega delle mani e l’inclinazione delle schiene compongono un quadro di disarmante essenzialità nel quale per un momento il Vuoto si lascia cogliere come pura armonia geometrica.

Il libro va letto – come tutti quelli di Inoue – ascoltandone i suoni segreti evocati. La cultura tradizionale giapponese esige il rispetto della forma e il culto della distanza, elementi che generano un linguaggio dotato di astrazione vertiginosa formulato nei termini di un codice che non ammette l’espressione dei sentimenti e delle emozioni. Il maestro del tè e il suo signore a un dato momento si trovano ad assumere posizioni contrapposte riguardo alla Via del Tè. Per Rikyu il culto della bellezza è ricerca del Vuoto e della riduzione a un essenziale che non può che essere elettivo e selettivo, mentre il suo signore intende la Via del Tè in forma meno rigorosa e più aperta.

Le pagine finali contengono un’indicazione preziosa: inaspettatamente il signore si presenta al cospetto del maestro del tè poco prima che egli compia il seppuku. Il dialogo tra i due appare composto, perfino improntato a pacata cortesia reciproca, e tuttavia vi ha luogo un ellittico scontro armato di estrema violenza. Il signore chiede al maestro di considerare annullato l’ordine del suicidio, il maestro risponde che è troppo tardi. Il signore ha di fatto ‘sguainato la katana’: «Perché voi l’avete sguainata con pieno vigore e convinzione, su questo non ci sono dubbi! Ed è per questo che anch’io devo sguainare quest’oggi la mia spada di uomo del Tè». Il seppuku è allora il gesto di invincibile opposizione che mette fine allo scontro tra il maestro e l’uomo del potere. E a soccombere non è il maestro. Ad assistere alla morte di Rikyu e a onorarne il valore si presentano le ombre dei grandi guerrieri che hanno combattuto Hideyoshi e ne sono stati sopraffatti. Il maestro del Tè, come già la Vita di un falsario, del 1951, affronta il tema della sconfitta rappresentandola come una scena visibile e decifrabile, in chiave estetica e politica, solo da parte di chi ha occhi capaci di guardare oltre il momento presente.