Ci sono termini che illuminano lo stato dell’arte dell’ideologia dominante in una data formazione sociale. Nel capitalismo contemporaneo, la parola innovazione è usata per indicare la capacità di trasformare la realtà senza cambiare di una virgola i rapporti di potere tra le classi sociali. È questo il filo rosso del nuovo numero della rivista «Outlet», dedicata appunto all’innovazione. Gli autori di questo numero – che sarà presentato oggi a Roma (appuntamento alle 17 alla Casa dei Teatri di Villa Doria Pamphili) – non si limitano solo a denunciare il trasformismo di chi usa il tema dell’innovazione per legittimare le scelte politiche, economiche e sociali di matrice neoliberista, ma provano a «decostruire» l’ordine del discorso dominante attorno alla capacità del capitalismo di essere una formazione sociale in un continuo divenire che consente l’esercizio di una libertà radicale nel perseguire una singolare «buona vita».

Ci sono saggi che in maniera brillante analizzano come l’innovazione giochi, nella sfera politica, un ruolo determinante nel raccogliere consenso e per conseguire un’egemonia culturale, svelando l’indubbia capacità da parte della destra di appropriarsi del termine per affermare l’immagine di una composita realtà politica che persegue la conservazione dell’esistente, ma che si candida sempre a trasformare l’esistente, assegnando invece alla sinistra politica il ruolo di difensori di uno status quo.

Un ribaltamento di senso e di significato che ha caratterizzato il lungo inverno neoliberista, ma che viene nuovamente riproposto dopo, anzi nel pieno di una crisi economica diventata strutturale. L’innovazione, in questo caso, serve ad occultare scelte tese a governare gli effetti della crisi, non a trovare vie d’uscita da una stagnazione economica che cristallizza feroci disuguaglianze e gerarchie sociali. La costante erosione dei diritti sociali di cittadinanza e la demolizione del welfare state sono infatti presentate come un’innovazione nell’azione di governo, sia nazionale che sovranazionale. Da questo punto di vista, l’attuale premier di governo Matteo Renzi non è secondo a nessuno nel presentarsi come un innovatore che è riuscito a far tornare questa attitudine alla trasformazione nell’alveo della sinistra, anche quando propone misure in perfetta continuità con il neoliberismo.

L’innovazione dunque come un manufatto ideologico che viene prodotto per legittimare i rapporti di potere dominante. Su questo punto, «Outlet» dà il meglio di sé, soprattutto quando mette in evidenza le contraddizioni, le ambivalenze presenti nell’ordine del discorso «innovatore».

C’è però un aspetto che nel numero della rivista è messo in ombra dalla vis polemica degli scritti che lo compongono. Ed è proprio su cosa si possa intendere per innovazione. Da quando è entrato nel lessico politico, innovazione ha sostituito il più impegnativo termine «rivoluzione», segnalando appunto la capacità del capitalismo di trasformare processi produttivi, esercizio del governo. L’innovazione è cioè sinonimo di progresso, un termine che non gode più del consenso avuto nel passato. Attraverso l’attitudine innovativa era cioè possibile immaginare processi di modernizzazione just in time, indicando la possibilità delle imprese e del sistema politico di reagire prontamente alle trasformazione dei comportamenti sociali.

Nel recente passato, l’innovazione atteneva infatti alla velocità delle procedure all’interno delle imprese e delle organizzazioni statali nell’adeguarsi a trasformazioni sociali, culturali che prendevano forma al di fuori tanto delle imprese che delle istituzioni statali: le imprese e le istituzioni dovevano cioè diventare «macchine dell’innovazione». È su questo crinale che viene operata una continuità con relativa presa di distanza dalle tesi di Joseph Shumpeter con le concezioni esistenti sull’innovazione, che era sempre una capacità interna dell’impresa o dello Stato. E se per l’economista austriaco l’imprenditore era l’unica figura che poteva ambire ad avere lo scettro dell’innovazione, nel capitalismo «organizzato» erano i processi produttivi o decisionali che dovevano essere organizzati per produrre innovazione. Ma tanto in Shumpeter che in studiosi come William Baumoil, l’innovazione era sempre un fattore interno, mai esterno all’organizzazione. Soltanto che il capitalismo contemporaneo ha dinamiche più articolate, meno lineari di quanto possono stabilire modelli analitici sviluppati solo per far rimanere il potere decisionale nelle mani di chi lo ha sempre esercitato.

La Rete individua nella cooperazione il campo dove si produce innovazione. Steve Jobs, figura simbolo dell’innovatore puro, altro non è che un rentier dell’innovazione prodotta dalla cooperazione sociale. Lo stesso si può dire dei makers , che immersi nelle relazioni sociali provano a trasformare ciò che viene discusso e sperimentato nella cooperazione sociale in un fare impresa, l’oggetto del desiderio dei capitalisti di ventura. Il nodo è come viene «catturata» l’innovazione. Un campo di indagine, forse, per un prossimo numero di Outlet.