La prima volta che mi è arrivata una mail dalla maestra dell’asilo di mio figlio – una cinese di Singapore dal look indie rock – ho pensato si trattasse di uno spam. Il messaggio non proveniva, infatti, dal solito indirizzo di classe, generalmente usato per le comunicazioni ufficiali, bensì da quello personale della maestra e rimandava a una serie di istruzioni poco convincenti e in cinese.

«..Che fa la maestra Syn, spamma?» ho pensato e mi sono affrettata a cestinare la mail sospetta.

Qualche giorno dopo all’asilo, un crocchio di genitori di varie nazionalità, si congratulava proprio con la maestra Syn per via di una misteriosa app per la condivisione di un diario interattivo di classe che tutti avevano facilmente scaricato su Ipad, Iphone e supporti vari.

A conferma del successo, alcuni si stavano godendo il diario live davanti al mio sguardo stupito e a quello di mio figlio Chen Xi, disperato. Non mancava nulla: c’erano le foto della gita di classe al museo di scienze naturali di Pudong, i link alle fiabe che la classe aveva ascoltato nel corso dell’anno e quello alle canzoni che avevano imparato, con tanto di file Itunes del tormentone pop con cui tutto l’asilo fa riscaldamento in cortile, prima di iniziare le lezioni.

Per finire, una testimonianza toccante. Il diario conteneva anche il video delle giornate di condivisione, in cui la classe di Chen Xi aveva accolto quella di sua sorella minore. Il video mostrava un Chen Xi gentiluomo che per l’occasione aveva risparmiato le solite percosse alla sorellina, mostrandosi altresì garbato e prodigo di attenzioni. Un documento prezioso, che io avevo buttato nel cestino per colpa del mio analfabetismo tecnologico.

Quasi in contemporanea, sventavo un possibile trauma infantile, quelli dalle conseguenze inenarrabili. Scoprivo infatti, per puro caso, che Chen Xi era stato invitato alla festa della sua amica Thea – evento considerato imperdibile perché interamente gestito dai fratelli maggiori della bambina, due dinoccolati adolescenti tedeschi cresciuti in India e dall’inventiva calamitosa.

L’invito mi era scappato perché era circolato esclusivamente in apposita chat su Weixin (WeChat) un’applicazione di messaggistica sul modello di whatsapp, che ad oggi conta 200 milioni di utenti in tutto il mondo. Tranne la sottoscritta, evidentemente. Come se non bastasse c’erano anche le fondamentali indicazioni in caratteri cinesi per raggiungere la festa e una lunga discussione sul regalo più adatto, risolta da una mamma americana, che aveva proposto l’acquisto di un materasso elastico, fornendo il link per il prezzo più imbattibile su Taobao, il più grande mercato telematico cinese.

E’ stato solo allora che mi sono convinta che, il momento di uscire dal torpore antitecnologico in cui vivevo, fosse giunto. Due le strade che mi si aprivano: innovarmi o perire. Chiaro che ho preferito vivere e ho così fatto il mio goffo ingresso nel nuovo secolo. Al mio fianco, Chen Xi, che ha perso immediatamente il senno, sostituendo il vocabolario abituale con parole nuove quali: application, download, upgrade, ripetute nei momenti di stanchezza come un mantra.

A tenermi lontana dalla tecnologia era stata fino ad allora un’incapacità genetica e il deprecabile esempio dato da molti genitori che valeva come un monito. Nei già stringati rapporti famigliari odierni, in molte famiglie cinesi e non, smart phone e vari si sono sostituiti all’impalcatura sociale, divenendone essi stessi parte fondamentale. Ormai completamente sdoganati, sono il miglior compagno di viaggio per pendolari impegnati in interminabili partite a giochi rumorosi, protesi per funamboli da serie televisiva, disposti a godersi un puntata anche ammassati in un vagone della metropolitana nell’ora di punta e compagni di gioco per i bambini annoiati, figli unici o meno, in cerca di sensazioni forti.

E quello che temevo è di fatto accaduto.

«Mi dai l’Iphone?» è la prima cosa che mi chiede Chen Xi quando ci sediamo al ristorante.

«Manco per sogno!» rispondo e lo osservo mentre si volta sognante ad ammirare il quadretto famigliare alle nostre spalle. Madre e padre persi negli schermi dei loro enormi Samsung e per il bambino un bel ultrabook, così non si affatica la vista a sparare uccellini.

«Lo sai che il nonno di Hao Hao ha l’Ipad!» mi aggredisce con tecnica rodata Chen Xi.

«Ma smettila!». Non ci posso credere. Il nonno del suo migliore amico cinese, è per la cronaca un ultra-ottantenne che sembra uscito da una soap opera dei tempi della rivoluzione culturale, giacchetta blu alla Mao e occhialoni con la montatura quadrata nera. La storia sta in piedi solo se con l’Ipad ci legge il Renmin Ribao (il giornale del Partito), a caratteri 50, penso.

Ma Chen Xi arriva prima e mi stende.

«Si è stato lui a insegnarmi l’arma segreta di Angry birds».

Dai primi timidi esordi, il nostro rapporto con la tecnologia si è però andato normalizzando. L’Ipad non è più oggi l’oggetto del desiderio, né un corpo contundente nelle liti tra fratello e sorella. Giace per la maggior parte del tempo inutilizzato. Rivive solo durante il week end, quando Chen Xi, si sveglia, lo accende e da i numeri:

«Mamma oggi siamo a 256, vaaai!».

A lui sembra un record, di quelli da registrarci il nome, ma si riferisce ai livelli di PM2,5, il particolato fine presente nell’aria e in grado di penetrare nei polmoni, che le apposite application riportano, accompagnato da messaggi allarmanti del tipo: «Molto pericoloso per vecchie bambini, state in casa!».

«Bravo, adesso torna a letto» rispondo, perché con quei numeri da record, c’è ben poco da fare.