A Roma, tra l’aprile e il maggio (secondo alcuni tra il giugno e il luglio) del 1650, Diego Velázquez (1599-1660) dipinge un ritratto di papa Innocenzo X, al secolo Giovanni Battista Pamphilj. Si racconta che il pontefice, di fronte all’opera appena compiuta, pur riconoscendosi in quei tratti, immediatamente esclamasse: «troppo vero!».

Vale la pena di soffermarsi a ragionare la spontanea affermazione del papa Pamphilj. Non senza meraviglia, egli constata, nell’osservarsi dipinto, un eccesso di ‘verità’. Una ‘verità’ ulteriore che intimamente lo riguarda e lo coinvolge, e lo spiazza come una novità imprevista. È sorpreso, quasi che il ‘suo’ ritratto, l’immagine di sé stesso che gli balza agli occhi or ora da Velázquez delineata, gli risulti più ‘vera’ della idea di sé stesso, del suo volto e del suo vivo corpo che Giovanni Battista Pamphilj fino a quel momento a sé stesso formulava.

Come a dire: quel suo ritratto realizzato da Velázquez rivelava a Giovanni Battista un Giovanni Battista più ‘vero’ del Giovanni Battista che sapeva di essere, e lo metteva innanzi ad un Giovanni Battista che gli era ignoto. Questa di svelare, di portare alla luce e di porre in evidenza nella restituzione d’una somiglianza l’identità d’una coscienza còlta nella sua forma vivente e, nel suo veritiero esser viva, non fissata una volta per sempre (e dunque circoscritta, serrata), ma formulata (e dunque presentata come variabile, aperta) è virtù esclusiva della pittura di ritratto, e il Ritratto di Innocenzo X (olio su tela, cm. 140×120, Roma, Galleria Doria Pamphilj) ne costituisce uno dei raggiungimenti più alti.

Ci si è chiesto quante furono le sedute che obbligarono il papa a restare in posa davanti al pittore. Si sa del carattere difficile di Innocenzo, irritabile, scontroso, poco cortese e raramente disponibile, così, si diceva, un’unica seduta egli avrebbe concesso a Velázquez. Come che sia, è certo che il volto di Innocenzo, composto di tocchi dati in rapida, sicura successione, bene può esser stato dipinto ‘alla prima’, mentre il resto della tela, invece – sfondo, poltrona, abito – sarà stato condotto a compimento in studio, con agio. Ma il viso – fronte, guance, orecchio, gli occhi, la poco curata barba e i baffi del papa – davvero delineati d’un sol tratto.

Tanto che quella stupefatta frase, «troppo vero», pronunciata sul far dell’estate del 1650, si declina presso di noi che osserviamo oggi, trascorsi da allora quasi quattro secoli, l’uomo rappresentato nel quadro, in un «semplicemente vivo», che spontaneo ci sale alle labbra. Si istituisce così, entro gli ardui paradigmi della pittura, quel complesso ordine di congiunzioni teso a stabilire un raccordo visivo tra ‘vero’ e ‘vivo’.

Il ‘vero’ Giovanni Battista Pamphilj, papa dal 1644 col nome Innocenzo X è ‘vivo’ davanti a me, ne conosco carattere, umori e intenzioni ch’egli non riesce tuttavia a tenermi nascosti, pur sottoposto io allo sguardo che ora mi rivolge e al quale non posso sottrarmi. Lo conosco così bene che posso prevedere le sue mosse, le parole che sta per dire e i gesti che, molto probabilmente, quelle parole accompagneranno.

È quest’esser ‘vivo’ di Innocenzo, diresti, che ha consentito a Francis Bacon (1909-1992) di ritrarlo dal ‘vero’ in una numerosa serie di pitture realizzate nel corso d’oltre un decennio, a datare dal 1949, quando esegue TestaVI (olio su tela, cm.93×77, Londra, The Arts Council of Great Britain). Bacon coglie Innocenzo in movimento. Ora apre la bocca in un urlo, ora ruota sulla poltrona e il volto risulta mosso, come in una fotografia.

E infatti il codice dei ritratti di Innocenzo eseguiti da Bacon, risponde, stante la ricerca che caratterizza l’intera opera del pittore inglese, ad una modalità che tiene conto d’una sintassi propria dello scatto fotografico, che condiziona il ‘vedere’ moderno e che Bacon sublima, senza residui, in pittura.

Una sintassi, come si sa, che fa tesoro, tra l’altro, delle acquisizioni visive fornite dalle sequenze fotografiche raccolte nel 1887 da Eadweard Muybridge nelle tavole di The Human Figure in Motion, e, poi, della raccolta di K. C. Clark Positioning in Radiography, pubblicata nel 1929.