Il Teatro povero di Monticchiello, dopo l’intermezzo itinerante (causa Covid) della passata edizione, ritrova il suo palcoscenico tradizionale, in piazza della Commenda. Dove l’autodramma numero 55 dipana, con la consueta carica di autentica partecipazione popolare, un nugolo di trame e percorsi, testi e sottotesti, fulgide panoramiche e cartoline ingiallite, incontri di ieri e itinerari di oggi, in un fitto intrecciarsi di episodi che avvolgono il nastro della memoria storica e i solchi di un futuro invadente, sempre più enigmatico e inestricabile. Non a caso il titolo Inneschi, rimanda a una sorta di deriva sociale e personale dove «attaccarsi» al passato e inserire la retromarcia dei ricordi, i più nobili e i più terragni, diventa scintilla per riaccendere il fuoco, leva necessaria per non cadere nel vuoto. Anche della fantasia. Che in questo caso diventa fin troppo infuocata e incrociata. La riserva immaginifica del Teatro Povero, ora che la morte di Andrea Cresti l’ha privata di quel retroterra onirico simbolico che ha segnato lo stile e la tenuta drammatica degli ultimi anni, abbisogna di una nuova emersione per comunicare e rendere partecipata tutta la ricchezza, di ieri e di oggi, di cui è padrona e portavoce. Gli Inneschi 2021 del teatro di Monticchiello emergono dalla guerra, il cielo che rimbomba di fuochi, e si offuscano su uno strano ordigno inesploso, ritrovato in cantina, neanche fosse una reliquia taumaturgica che potrebbe alla fine, chissà, rivelarsi un buon «investimento» per i curiosi. Il dibattito è aperto. Pragmatismo contro sentimentalismo. Il conflitto generazionale decolla. Ciascuno ha le sue ragioni per sentirsi utile. Nonni e nipoti, preti e sindaci, vecchi e giovani, genitori e figli, gente del posto e gente venuta da fuori. Il mondo di qua o di là, comunque la vedi, è una discarica sontuosa. Il congedo è doloroso. Anche per chi assapora il gusto delle santità. La bomba, quella vera del 44, è già saltata. Come sarà la prossima?