Il processo di progressiva italianizzazione degli italiani è stato a lungo rappresentato in modo schematico, come una sorta di opposizione tra due mondi separati e lontani: la massa dei semicolti da una parte e quella dei letterati dall’altra; su un versante l’italiano come lingua solamente scritta, dotta e letteraria, sull’altro il dialetto utilizzato come unico strumento del parlato. A modificare questa immagine in bianco e nero, e a diluirne i colori in una visione più equilibrata e articolata, ricca di gradazioni e sfumature, sono stati gli studiosi che hanno rintracciato i percorsi sotterranei tra i due mondi: da Giovanni Nencioni, che scrisse saggi fondamentali sulla costanza dell’antico nel parlato moderno, a Francesco Sabatini, che ha analizzato la persistenza nel tempo delle strutture dell’italiano orale, fino a Sandro Bianconi, Francesco Bruni e Luca Serianni, che con posizioni più decise o più caute hanno sostenuto che gli italiani nel corso dei secoli sono riusciti a intendersi tra di loro attraverso una lingua scritta e parlata, superregionale.

A sostegno di questa posizione si schiera ora con forza Enrico Testa, che nella premessa a [/V_INIZIO]L’italiano nascosto Una storia Una storia linguistica e culturale (Einaudi, pp. 321, euro 20) espone la sua tesi: l’esistenza di un «italiano comune, per quanto rozzo e variegato, a destinazione scritta e presumibilmente anche parlata». Per dare una rappresentazione di questa realtà linguistica e culturale in gran parte sconosciuta, Testa ha suddiviso il libro in cinque capitoli, nei quali ha seguito l’evoluzione dell’italiano per ‘campioni’, esplorando e commentando un gran numero di testi: alcuni già noti agli studiosi, ma sconosciuti al pubblico più vasto dei lettori, altri rari o inediti. Il primo capitolo è dedicato all’italiano dei semicolti, cioè quello imperfettamente acquisito da chi ha per madrelingua il dialetto, nelle sue manifestazioni scritte, tutte accomunate da esigenze comunicative pratiche. Testa riporta e analizza brani tratti dagli scritti di personaggi vissuti tra il Cinquecento e i primi decenni del Novecento: da una strega della campagna romana a un parroco dell’Appennino parmense, da un mugnaio friulano a due donne della Val di Non accusate di stregoneria, dagli autori anonimi dei cartelli infamanti affissi pubblicamente nelle strade di Roma a briganti lucani e calabresi, fino agli autori delle lettere e delle cartoline scritte tra il 1916 e il 1919 dai ricoverati dell’ospedale psichiatrico di Quarto. Si tratta di scritture di semicolti delle quali l’autore analizza i tratti grafici, l’organizzazione sintattico-testuale, l’influsso dialettale, l’uso del lessico. Pur nella grande diversità dei modi linguistici, a seconda della provenienza geografica e sociale degli scriventi, i testi proposti sono tutti accomunati dall’esigenza concreta di ‘farsi intendere’. Testa mette in luce gli elementi positivi di questo tipo di realizzazione dell’italiano scritto, e segnala all’attivo degli scriventi il lessico povero ma anche solidamente concreto, i costrutti sintattici più semplici, il non sporadico uso del congiuntivo, e perfino una certa capacità retorica. Su questa base e proprio grazie a questi scritti viene scalfita l’immagine schematica di una dialettofonia monolitica, e si può supporre con l’autore che «anche in passato – in certe circostanze e occasioni – si svolgessero scambi orali in un italiano rudimentale e tendenziale» simile a quello delle scritture dei semicolti, «prove indirette di un parlato ormai smaterializzato e solo immaginabile, ma esistente».

A questa immagine di una realtà diversa da quella in genere rappresentata corrisponde, nel secondo capitolo, un quadro altrettanto suggestivo e controcorrente, che cerca di smussare lo schema secondo il quale al livello più basso ci sarebbe stata una totale assenza di fruizione di prodotti letterari da parte dei semicolti. Anche in questo caso, secondo Testa, è possibile dimostrare che non si è trattato di «due livelli incomunicanti, uno alto e uno basso […]ma di una densa dimensione grigia, ricca di tramiti e di interferenze». Di questi incroci l’autore cita numerose testimonianze. Le letture degli ‘umili’ comprendevano, tra Cinquecento e Seicento, non solo opere popolari, ma anche della tradizione alta: tra gli esempi, i testi religiosi e d’avventura posseduti da un mugnaio friulano del Cinquecento; le copie del Decameron e dell’Orlando Furioso confiscate dai censori ecclesiastici e dagli inquisitori a un ciabattino, le opere di Ariosto e Tasso presenti sia nella biblioteca di un curato in una sperduta pieve rurale della Svizzera italiana sia in quella del proprietario di un mulino nell’Appennino bolognese. Accanto ai testi alti, l’innovazione tecnologica della stampa favorì la diffusione di prodotti a destinazione popolare, venduti a basso costo, nelle fiere e nei mercati.

Un settore particolarmente importante era quello delle pubblicazioni utilizzate per l’apprendimento della lettura e della scrittura. Enrico Testa si sofferma soprattutto su quelle destinate ai semicolti appartenenti alle fasce medio-basse della popolazione, che ambivano a raggiungere una minima competenza del volgare comune. Tra questi testi figuravano abbecedari, manuali di istruzione popolare, operette scritte da maestri di scrittura, perfino rudimentali vocabolari di base. Nel frattempo, sull’altro versante, quello che l’autore definisce ‘retroscena dei letterati’, cioè nella loro dimensione privata, che cosa succedeva? A questa dimensione è dedicato il terzo capitolo, nel quale Testa espone i caratteri della vastissima produzione cinquecentesca di epistole, biglietti, semplici note e cartigli. Si va dalle lettere dell’Ariosto (quelle giudicate da Benedetto Croce «secche, sommarie e tirate in fretta», e proprio per questo preziose, nella prospettiva dell’autore), a quelle di Baldassar Castiglione e di Pietro Bembo, dirette a madri e mogli, fattori e segretari. L’autore entra nel laboratorio della loro scrittura e ci restituisce una dimensione privata utile per individuare una tendenza che accomuna scriventi di diverso livello culturale: la volontà di scrivere ‘per farsi intendere’. Negli ultimi capitoli vengono analizzati il volgare usato per la fede, visto dallo studioso genovese come «un singolare groviglio di fili di diverso colore», documentato anche in questo caso da testi diversissimi (prediche, libretti di devozione popolare, lettere di religiose, ecc.) e l’italiano d’oltremare, cioè l’italiano usato come strumento di comunicazione per le relazioni politiche e commerciali, una sorta di interlingua testimoniata nelle memorie di viaggiatori e diplomatici. I testi dell’italiano nascosto esposti da Testa si configurano come testimonianza dell’esistenza di un italiano comune e condiviso nei secoli. E oggi? Qual è il rapporto tra l’italiano popolare del passato e l’italiano povero della realtà contemporanea, e in particolare l’italiano della scuola? Nella conclusione le considerazioni dell’autore si fanno amare, ed è difficile, purtroppo, dargli torto, quando scrive che mentre l’italiano ‘pidocchiale’ evocato in apertura è stato una conquista che ha tenuto viva la possibilità di una comunicazione tra scriventi e parlanti delle stesse classi e di classi diverse, l’italiano povero dei nostri giorni isola chi sa servirsi solo di esso «in una subalternità culturale facile a tramutarsi in veicolo di manipolazione e di resa a potentati seducenti e vischiosi».