Il più spudorato, irriverente, sarcastico tra gli scrittori americani viventi debuttò al romanzo facendosi forte di una certa prudenza espressiva, probabilmente acquisita anche in conseguenza della batosta che gli venne dalle reazioni isteriche con le quali furono accolti i racconti di Goodbye Columbus, il suo esordio alla narrativa tacciato di antisemitismo, che scatenò la Lega Antidiffamazione della B’nai B’rith e più tardi la Yeshiva University di New York: lì, al centro di una tavola rotonda, il giovane Philip Roth si trovò a difendersi da un inventario di accuse demenziali, immediatamente capitalizzate come riserva alla quale attingere per alcune delle sue irresistibili digressioni narrative.
Ma per convertire in frutti del sarcasmo il veleno di quello schock gli ci vollero non meno di sette anni, quando con il Lamento di Portnoy il vulcano delle sue ruminazioni esplose travolgendo e riscattando tutti i suoi precedenti scacchi esistenziali. Aveva alle spalle, fra l’altro, un matrimonio che la sua biografa Claudia Roth Pierpoint defisce il «più devastante, doloroso e duraturo dal punto di vista degli effetti dopo quello tra Scott (Fitgzerald) e Zelda»: proprio alla sua prima moglie, Maggie Williams, Philip Roth dedicò il primo romanzo, che la Einaudi ha appena fatto ritradurre a Norman Gobetti con il titolo Lasciar andare (pp. 748, euro 24,00), dopo cinquant’anni dalla prima pubblicazione per Bompiani.
Nella vita vera Roth sperimentò una sequenza di scenate matrimoniali, ricatti e imbrogli dai quali si sarebbe emancipato solo quando gli riuscì di trasfigurarli nelle gesta di una delle sue più godibili «eroine» letterarie, la Maureen protagonista della Mia vita di uomo. Ma al tempo del primo romanzo, il ménage non doveva andare ancora tanto male, se la figura sulla quale Roth riversò i tratti della moglie si presenta al lettore come una donna intelligente, problematica, spigolosa, ma in fin dei conti attraente: Martha Reganhart è, nel romanzo, la compagna del protagonista Gabe Wallach, ma al tempo in cui lo incontra ha già due figli, Cynthia e Mark, ora alle prese con la difficile digestione di una nuova presenza maschile nella loro quotidianità.
Immerso nei romanzi di Henry James, Gabe è uno studente benestante, appena congedato dall’esercito, recententemente orfano di madre e preda riluttante di un padre dentista che ne reclama la compagnia: al suo primo ritorno a casa, fra una rivendicazione e una esplosione di vittimismo, il padre pretende di controllargli carie e gengive, aprendo una delle digressioni narrative più comiche e meglio riuscite del romanzo.
Deuteragonista di Gabe, come lui ebreo e iscritto alla specialistica dell’Università dell’Iowa, Paul Herz è invece uno squattrinato, ritroso studente, poco incline a lasciarsi aiutare dall’amico e per di più prematuramente sposato con una fanciulla a dir poco psicolabile. I destini delle due coppie, entrambe (sebbene diversamente) conflittuali si intrecciano a più riprese in questo romanzo prolisso, dove le troppe parole impiegate per introdurre i passaggi che presuppongono colpi di scena, o almeno svolte dell’intreccio, descrivono tornanti faticosi sui quali arrampicarsi per vedere cosa si nasconda dietro l’angolo della pagina.
Dunque, Gabe si introduce lentamente nella casa di Martha, che lo desidera ma al tempo stesso non lesina discussioni. Sperimenta la diffidenza dei bambini, poi ne conquista l’interesse, sempre preoccupato di fare la cosa giusta, scrupoloso e paziente con Martha e con gli amici che vorrebbe aiutare: proprio il tipo di uomo dal quale Roth avrebbe, più tardi, distolto i suoi interessi di romanziere.
Parallelamente, Paul cerca di compiacere la giovane Libby, che sebbene convertita all’ebraismo non perciò è meno invisa ai suoceri: la difende e la incoraggia, ma il loro matrimonio sconta le ristrettezze economiche alle quali li ha condannati l’abiura delle rispettive famiglie.
Siamo nei primi anni cinquanta, i protagonisti sono poco più che ventenni, si muovono fra New York, Chicago, Detroit, sono letterati alle prime armi, intenti a costruire il loro futuro, e a scontare le interferenze familiari nelle loro vite da poco indipendenti. Tutte le parti migliori del romanzo sono nei dialoghi, dove già si rivela il talento dello scrittore maturo; e anche i temi di cui si discute, soprattutto quando di mezzo c’è il conflitto fra parenti, sembrano offrire a Roth il preludio per quelle che diventeranno le sue invettive più taglienti.
Non solo Gabe deve vedersela con il padre che ne rivendica la compagnia, pretendendo di aprirsi un varco nella sua considerazione: «In questo senso come ti sembro, Gabe, troppo…troppo nietzschiano?» – ma prima ancora ingaggia un esilarante duetto con una cocciuta pretendente, che gli si è installata in casa e non intende sentire ragioni.
Anche Paul Herz è protagonista di un dialogo che lascia intravvedere il Roth migliore: da una parte lui che professa le ragioni del suo amore, dall’altra lo zio Asher, che i genitori gli hanno mandato in loro vece per dissuaderlo dallo sposare la cattolica convertita, che non intendono accettare: «Solo perché gliel’hai ficcato dentro per primo, ora ti lasci legare mani e piedi?»
Già in questo suo primo romanzo, come avverrà più tardi nelle pagine in cui Zuckerman lotta contro i pregiudizi del padre, Roth è abilissimo nell’imbastire discussioni sfiancanti perché alimentate da una ostinazione che sconfina nella follia, ed è sempre molto credibile nel nutrire i litigi fra parenti di interrogativi retorici della più bassa lega, gonfiando di pathos la pretesa di fondare impeccabili sillogismi su condizionali controfattuali. Ma qui Roth tenta anche l’impresa di addentrarsi nella psicologia dell’infanzia, e gli scambi di battute che passano tra Gabe e i figli di Martha Reganhart sono spesso indovinati e convincenti, soprattutto dopo che la bambina ha causato involontariamente (e dal punto di vista narrativo troppo sbrigativamente) la morte del fratello più piccolo: Gabe e la piccola Cynthia sono sulla spiaggia, lei è preoccupata per il suo gesto sconsiderato, sebbene non ne conosca ancora le conseguenze, lui è prodigo di distrazioni.
Tutto – dalla ambientazione sulle rive dell’oceano alla discrepanza derivata dalla atmosfera forzatamente festosa sulla quale incombe la tragedia, dai gridolini fra timore e godimento della bambina spaventata dalle onde alla sua infatuazione per l’adulto: «Non ho neanche avuto paura, gli disse nell’orecchio» – tutto ricorda molto da vicino la scena sulla spiaggia nel meraviglioso racconto di Salinger, «Un giorno ideale per i pescibanana»: solo l’epilogo, naturalmente, manca; ma per il resto gli echi sono tanti che è difficile Roth non li sentisse risuonare mentre scriveva.
A quel tempo, anche lui, come gli studenti che mette in scena, era piuttosto concentrato nella lettura di Henry James, ma la lezione di Saul Bellow e l’imitazione a volte smaccata di Thomas Wolfe contribuivano a insufflare nel giovane scrittore l’ambizione di stare costruendo – disse – un «grande romanzo americano». Dopo avere stentato nel trovare agganci che legassero a un unico filo narrativo le due coppie, fatto salvo il balenìo di una possibile trasgressione nella amicizia di Libby con Gabe, Lasciar andare si avventura verso un epilogo stiracchiato, che ruota intorno alla adozione da parte di Paul e di Libby di una bambina appena nata da una donna incauta, che tarderà a uscire di scena: nella vicenda Gabe ha il ruolo del mediatore, e in questa veste avvia una trattativa che avrebbe potuto generare non poca suspence se Roth, già formalmente impeccabile ma non ancora abbastanza autospietato nell’amministrare l’economia del romanzo, non si fosse dilungato in scene contorte e prive di mordente.
Dopo l’uscita di Lasciar andare, nel 1962, i sette anni che separarono lo scrittore americano dalla pubblicazione del suo secondo romanzo, Quando lei era buona, costituirono il suo più lungo periodo di inattività in cinquant’anni di carriera. Quella che Philip Roth chiamò la mia «paralisi immaginativa» era dovuta quasi interamente ai pensieri persecutori indotti dalle bugie della sua prima moglie; ma anche le stroncature inflitte al suo esordio sulla scena del romanzo sarebbero bastate. A riprova del fatto che il talento si coltiva, nel tempo, con il sudore della fronte.