Alla fine lo sgombero annunciato, solo poche settimane fa (vedi il manifesto dell’8 luglio), per gli abitanti di Kibera è arrivato. Era il 3 luglio quando era stata affissa la comunicazione da parte del responsabile del settore infrastrutture Nyakongora «removal illegal structures on the road reserve»: entro due settimane verranno rimosse le strutture prive di autorizzazione.

La più grande baraccopoli dell’Africa subsahariana, in Kenya, verrà attraversata da una nuova arteria stradale che comporterà, secondo le prime stime, lo sgombero di almeno 30mila persone. Non si tratta solo di “spostare” gente, ma interi settori produttivi che fanno capo alla cosiddetta economia informale: negozi, ristoranti, sale video, un’asse portante della ricchezza del Paese che produce secondo l’International Labour Office tra il 20 e il 40% del prodotto interno lordo. È il lavoro di migliaia di persone dentro queste città nella città che per semplicità chiamiamo baraccopoli.

Spazi destinati all’inizio degli anni ‘60 agli “indigeni” attraverso permessi speciali perché agli africani era vietato vivere in città, le baraccopoli sono diventate negli anni spazi urbani anche se con la forma del villaggio: case di fango e tetti di lamiera. Dando luogo a città arcipelago, come Nairobi, con isole ricche, che stanno in alto, sia in senso stretto e sia in senso figurato, perché legate economicamente con il resto del mondo, e isole povere, le baraccopoli, che stanno in basso, attaccate alla terra, perché lottano ogni giorno per appartenere alla terra, inventandosi un lavoro per sopravvivere ed un habitat del sonno dove passare la notte.

Per gli urbanisti un successo (data la scarsa dotazione di risorse iniziali), per gli economisti un fatto inspiegabile: come fa ad andare avanti un quartiere di 500mila abitanti con livelli di disoccupazione che sfiorano l’80%? Una città di fatto dove anche le scuole e i servizi sono invenzioni locali. Niente di bello, ma per i poveri è pur qualcosa.

Ora tutto questo (almeno in parte) finisce per fare spazio alla strada Kibera-Kungu-Lang’ata. Agli abitanti non sono state offerte alternative, né come aveva richiesto il parlamentare locale Ken Okoth compensazioni. La demolizione ha riguardato abitazioni, attività economiche, scuole, progetti sociali, chiese e ambulatori medici.

La Commissione nazionale per i diritti umani del Kenya ha definito gli sgomberi forzati «non solo una violazione della legge e dei diritti umani, ma anche una violazione della fiducia e una dimostrazione della malafede da parte dell’Autorità per le strade del Kenya e delle altre agenzie interessate».

Infatti, nei giorni precedenti si erano svolte riunioni con le autorità dalle quali «avevamo ricevuto rassicurazioni da parte di Kenya Urban Roads Authority che non si sarebbero effettuati sgomberi prima dell’attuazione di un processo di enumerazione e di un ricollocamento delle persone interessate o in alternativa di una compensazione».

L’autorità ha risposto, venerdì scorso, affermando che aveva effettuato il censimento di duemila famiglie, ma come spiega Madina Mohamed, portavoce parlamentare di Kibera, la compensazione non è arrivata. Inoltre, continua Madina, «nella stessa riunione avevamo concordato che tutte le scuole coinvolte nella demolizione sarebbero state risparmiate fino alla fine del mese per permettere agli studenti di concludere il trimestre». Conclusione sette scuole sono state demolite.

Qui i politici sono contro gli sfratti, ma di fatto non agiscono di conseguenza, come racconta Benard Mwangi (uno degli sfrattati): «Hanno fatto l’enumeration, ci hanno detto di rimanere pazienti mentre il bulldozer abbatteva le nostre case e adesso? Davvero non so da dove cominciare. Non ho visto i nostri leader, ma durante le elezioni corrono come locuste. Dove sono i parlamentari? È questa la costituzione che abbiamo approvato nel 2010?».

Le persone si sentono prese in giro e pensano che il censimento sia stato una farsa. Intanto la gente sta cercando autonomamente alte sistemazioni rimandando temporaneamente la famiglia al villaggio come Anthony Kariuki: «Sono scioccato, ho passato la notte al freddo. Ora ho rimandato la mia famiglia in campagna, intanto provo a vedere come posso riorganizzarmi».

Altri stanno cercando una sistemazione sempre all’interno di Kibera dove gli spazi sono già fortemente congestionati, ma songa mbele, andiamo avanti. «Poi vedi alla fine – racconta Emmanuel Thebby – il potere è potere. Invade. È la sua natura. Invade le nostre vite, non si può più cambiare il mondo senza prendere il potere, caro ragazzo».

Amnesty international e le altre organizzazioni non demordono: «Andremo avanti per vie legali perché i diritti delle persone siano rispettati e sia garantita loro una sistemazione alternativa».