Persino nell’ultimo libro di Stephen King, Mr. Mercedes, c’è una battuta (ironica) su Obama, padre di tutti i mali in cui versa l’America oggi. Con una disciplina prussiana, che li aveva elusi nei due scorsi cicli elettorali, e sotto la guida strategica di Mitch McConnell, il cui piano 0 era sempre stato quello di «distruggere questa presidenza», foraggiati dai superpoteri finanziari dei fratelli Koch e di Karl Rove, i repubblicani sono riusciti a fare di Barack Obama il nemico numero uno di quest’elezione di midterm. E hanno stravinto.

Di fronte alle macerie della coalizione che, nel 2012, aveva non solo rieletto il presidente, ma aveva conquistato al suo partito un avanzamento in entrambe le camere di governo, oggi viene da chiedersi se sia stata proprio una buona idea, da parte dei democratici, tenere Obama il più lontano possibile dalla campagna elettorale, renderlo invisibile al punto da non poter difendere il suo record politico. Alla luce di quello che è successo in Kentucky (uno degli Stati in cui la sua riforma sanitaria ha registrato il suo successo più alto), forse Alison Lundgren Grimes, l’avversaria di Mitch MacConnell, avrebbe potuto risparmiarsi la figuraccia che ha fatto quando si è rifiutata di dire se aveva votato per questo presidente o no. Tanto non le è servito, anzi.

Come timidezza, pavidità e non lealtà nei confronti di Obama non hanno «salvato» altri democratici in bilico. E chissà se, invece di posticipare la firma dell’ordine esecutivo con il quale Obama avrebbe almeno temporaneamente legalizzato lo status di milioni di immigrati illegali, il presidente non avrebbe dovuto firmarlo – a dispetto delle paure del suo partito – galvanizzando così il voto dei giovani e dei latinos che lo avevano entusiasticamente sostenuto dopo la firma del Dream Act.

Recriminazioni a parte, il difficile rapporto tra la Casa bianca e il Congresso, non solo nella sua fazione repubblicana, dominerà la vita politica dei prossimi due anni e gli schieramenti che si verranno a creare in previsione del 2016.

La possibilità di revocare la riforma sanitaria sembra diventata una priorità minore per i repubblicani rispetto a due anni fa (visto che nel suo stato, il Kentucky, sta andando benissimo, McConnell ha suggerito ti mantenerla cambiandole però nome). Ma il nuovo assetto del Congresso e la conseguente riconfigurazione delle Commissioni parlamentari garantiscono per esempio che in fatto di politica estera, le voci di falchi come John McCain e Lindsay Graham avranno un peso maggiore e che eventuali nomine giudiziarie, non solo alla Corte suprema, faranno ancora più fatica a passare.

Già martedì sera, con gran parte dei risultati ormai noti, i commentatori ipotizzavano quali fossero le chance di rendere funzionante un Congresso paralizzato da circa quattro anni. Alcuni ipotizzavano una sostituzione ai vertici democratici del Senato, in cui invece del combattivo Harry Reid (senza cui Obamacare non sarebbe mai passata) potrebbe arrivare il più diplomatico senatore newyorkese Charles Schumer. Altri immaginavano importanti sostituzioni nel circolo intimo dei consiglieri di Obama, che è sempre accusato di essere tropo isolato, «imperiale». Dalle sedi tutte uguali dei logorroici canali all news il mantra più comune è quello che invita alla collaborazione.

Sotto la leadership di McConnell e Boehner, i repubblicani hanno deciso che finora quella collaborazione a loro non conveniva per niente. Sarà da vedere se possono rischiare altri due anni di stallo e ostruzionismo, come quelli appena trascorsi, o se, in vista delle presidenziali del 2016, saranno costretti a cercare una soluzione alle divisioni interne tra l’ala più istituzionale del partito e quella oltranzista, dei Ted Cruz (che quest’anno ha mandato avanti una campagna per l’impeachment di Obama), o dei Rand Paul (il cui isolazionismo fa a pugni contro l’interventismo di McCain).

All’orizzonte si stagliano già le possibili candidature di governatori «di successo» come Scott Walker (appena rieletto in Wisconsin), dell’indomito governatore del New Jersey, Chris Christie, di Rand Paul e persino di Jeb Bush. Da parte democratica, Hillary Clinton rimane ad oggi l’unica ipotesi plausibile di poter contrastare il nuovo assetto repubblicano e l’immane potere finanziario che gli sta dietro (diversamente da Obama, sia Bill che Hillary Clinton sono stati visibilissimi nella campagna). Ci saranno sicuramente altri candidati, è troppo presto per fare previsioni. Quello che però è sicuro è che i democratici non potranno più sperare di vincere solo perché i repubblicani si fanno a pezzi tra di loro. Il risultato di questa mancanza di polso e di idee, e del rapporto poco chiaro con la Casa bianca, è stato il voto di martedì.