A mio avviso, Forrest Read ebbe ragione a mettere in risalto aspetti deludenti della faccenda in oggetto (malanimo, ingratitudine), quando, nel 1965, curò le lettere di Ezra Pound a James Joyce assieme ad altri scritti (Pound/Joyce, Rizzoli, 1967), oggi ristampato da il Saggiatore con il titolo Lettere a James Joyce (pp. 474, € 45,00). Questo imperdibile classico ci viene infatti riproposto in una scanzonata ri-traduzione di Antonio Bibbò, il quale, tuttavia, fa eco a quella coraggiosa e disambiguante di Ruggero Bianchi del ’67, operazione di cui Bibbò dà conto in una «Nota», nella quale, invece, nodo altrettanto focale diventa, chissà perché, la «politica fascista» di Pound. A tale proposito, per inciso, è doveroso, da parte mia, ricordare quanto correttamente mi disse una volta il fedele repubblichino Giano Accame: «Pound non fu fascista ma, in quanto simpatizzante della politica economica di Mussolini (bonifiche, battaglia del grano, ecc.), uno accusato di fascismo». C’è una bella differenza tra essere e non essere: i fatti e le opinioni, anche dei fautori di un Pound affiliato al regime, bisogna conoscerli prima di parlare. E, comunque, cosa c’entra il fascismo se conversiamo di traduzione?
Si aggiungono cura e introduzione originarie di Forrest Read con il corollario di una prefazione di Enrico Terrinoni in apertura. Malanimo, metteva in luce Read. Tramite qualche dettaglio, adesso vedremo di che cosa stiamo ragionando.
Secondo alcuni, il meglio di Joyce si ferma al 1916 con la pubblicazione, perorata da Pound presso W. B. Yeats – che di lui, allontanatosi mentre l’Irlanda si preparava con le armi all’indipendenza, non volle più saperne – dello stupendo Ritratto dell’artista da giovane, il suo vero capolavoro, dopo i pregiati Dubliners e Chamber Music. Pound continuò poi a seguire l’esule irlandese durante la travagliata stesura dell’Ulisse: da Trieste, Joyce gli spediva i vari capitoli, ansioso di ricevere suggerimenti, capitoli che poi, sempre grazie a Pound, apparivano revisionati e a puntate sulla «Little Review».

Copioso rifornimento di alcool
Nel 1920, lo aiutò a raggiungerlo a Parigi con tutta la famiglia; lo finanziò a proprie spese, ovvero rinunciando spesso magari a un’omelette, o scrivendo – a scapito dei suoi Cantos – un articolo in più per «The Dial», «The New Age», «The Egotist», al fine di guadagnare qualche soldo di contorno utile a sostenere, oltre che se stesso e la moglie Dorothy, il copioso rifornimento d’alcool di cui aveva bisogno l’amico (lui invece era astemio ma buongustaio); persistette nella sua assistenza facendogli curare gli occhi; gli presentò T. S. Eliot, il quale, giunto da Londra con un pacco contenente scarpe nuove (che Joyce passò all’allampanato e sfaccendato figlio Giorgio), vista la situazione, preferì non profferire parola; spillò, inoltre, qualche dollaro per lui dal ricco collezionista americano-irlandese John Quinn; gli procurò infine un lascito perenne da parte di una magnate, una certa Mrs. Weaver, affinché, con due figli, di cui una, Lucia, con la testa bacata, e una moglie a carico, Joyce, mezzo cieco e con le scarpe sfondate, potesse vivere dignitosamente e dedicarsi solo alla scrittura (mentre gli altri sgobbavano).
Insomma, lo sostenne in tutti i sensi, purché l’Ulisse, in cui egli allora credeva, vedesse la luce, cosa che infatti avvenne a Parigi, fra grandi festeggiamenti, il 2 febbraio del 1922 (un bel buon compleanno alla Candelora! con luce di candeline): una vittoria in barba alla censura. Nel frattempo, abbondanti dovizie arrivavano a casa dell’esule. E quindi, scrive Read, «Pound forse sarebbe rimasto esterrefatto, o si sarebbe perfino indignato, se avesse saputo dei lussi nei quali indulgeva Joyce».
La presente edizione, si diceva, delude per altrettanta capacità di stupire. Prova, qui e là – è vero – a presentarsi più brillante nella lingua, concedendosi ricamature di peso equivoco ma sottotraccia tradisce parzialità e bassa ironia. L’impianto, è ovvio, resta quello di Read, il quale, seguendo le indicazioni dell’astuto Joyce post-Ulisse, lascia che Pound passi per uno sprovveduto qualsiasi agli occhi di Joyce: «Era il pellerossa e il pantecnichnon di Wyndham Lewis, il tipo americano del ‘sempliciotto rivoluzionario’ la cui arte è ‘mongola, inumana, ottimistica e tendente al prezioso, al contrario di quella europea, solida e ricca di pathos’. Oppure era più complesso, un nuovo profeta e un tecnologo del mondo che nondimeno avvertiva la ‘maledizione mia & della mia nazione’?», si chiedeva Joyce ancora stranamente incerto sul quid di Pound ad amicizia collaudata, tradendo un atteggiamento di lieve sufficienza anche quando gli argomenti di cui discutevano erano impegnativi e su temi svariati: la letteratura moderna italiana, Sirmione e Catullo, il canone inglese, Oscar Wilde, Shakespeare, Bouvard et Pécuchet; e questioni di carattere scientifico-filosofico, e religioso, tomistico, patristico (in quest’ultimo campo Joyce, che aveva studiato dai gesuiti, era in effetti più forte): Agostino, Dante, Cavalcanti: cosa s’intende per «natural dimostramento» in Donna mi prega? chiedeva Pound, senza successo di risposta adeguata.
La sympatheia di Pound durò fino all’Ulisse. Sebbene egli, a un certo punto, iniziasse già a nutrire dubbi su ciò che Joyce praticava, ma non sul «metodo mitico» impiegato nell’Odissea dublinese, una tecnica che – a differenza del flusso di coscienza o del monologo interiore – restava una trovata geniale del solo Joyce. Eppure, al di là della bella Telemachia e di pregi nei singoli episodi, egli mal digeriva, per esempio, la cosiddetta «ossessione cloacale» dell’Ulisse (e di Bloom), e soprattutto cominciò a intuire via via la disintegrazione che minacciava il romanzo in generale, come conseguenza di esasperanti giochi linguistici e strutture narrative scardinanti la stessa identità del romanzo, o l’identità del romanzo/anatomia alla Rabelais. Fu costretto a dichiarare, per buona pace dell’anima, che, in fondo, il romanzo dopo Joyce non era ancora morto, e che dopo Henry James si distinguevano ancora esempi di qualità, e nominava a tal fine, e fra altri, Apes of God di Wyndham Lewis, Eimi di E. E. Cummings e Life Along the Passaic River di William Carlos Williams.
La rottura avvenne invece quando iniziò ad apparire Finnegans Wake, un altro tormentato tour de force. Pound lo disse chiaro e tondo: di qui non si va oltre, bisogna cambiare registro. Ma Joyce, il rottamatore, non lo ascoltò, e finì nella melma del Phoenix Park a Dublino, che non vedeva da trent’anni, con il suo uomo qualunque, il presumibilmente defunto sbevazzone e incestuoso HCE (Here Comes Everybody), del quale si assiste all’onirica veglia notturna, dopo aver egli liberato, con la sua morte apparente, la sacrificata ALP (Anna Livia Plurabelle: il principio femminile), che l’autore identifica con il fiume dublinese Liffey. ALP può così licenziare da tutti i suoi guai la figlia e i due osmotici gemelli: gli strambi Shaun e Shem.

Vendette con punte al vetriolo
Ebbene, questa volta Pound disse no in thunder (l’espressione la prendiamo in prestito da Melville, anche perché è di effetto, avendo Joyce paura dei temporali) e, pounding pounding, con il ticchettio del suo bastone e con l’eterno cappello da cowboy (era nato in Idaho e ne andava orgoglioso), con piacevole soddisfazione condannò Finnegans Wake all’inferno, non prima di essersi sfogato, indirizzando a Joyce un bel numero di abili limerick e parodie. Di questo aspro dialogo a distanza, Bibbò esalta «la giocosità che caratterizza tanto Pound quanto Joyce».
Le vendette maliziose di Joyce brulicano nel testo con punte al vetriolo. «Joyce, forse, l’aveva preso in giro per primo, nel 1929, dopo che Pound ebbe rifiutato Shaun per The Exile», destando l’ira di Joyce, ricorda Forrest Read, il quale decide di dedicarsi a un ripescaggio dei rimandi all’amico in Finnegans Wake, la nuova anatomia dublinese, portata a termine in Svizzera, dove Joyce si rifugiava in tempi di guerra (si comportò allo stesso modo nella Grande guerra, abbandonando capra e cavoli a Trieste). Poco prima di morire di ulcera perforata, immemore di gesti generosi e sapienziali, Joyce infatti si divertì ad libitum a scoccare frecciate a destra e a manca.
Secondo Read, Pound vi appare «in varie guise». Naturalmente, «il suo nome si presta bene a essere associato a cibo e denaro, come conviene al suo cercare sovvenzioni e all’enfasi da lui data alle questioni economiche e sociali in seguito». Si può ravvisare Pound «nel rumoroso tambureggiare, nella radio, nel tuono presago»; in un gioco di parole «su ‘arsE’ (culo), cioè Esra al contrario, il poeta fallico che criticava l’‘ossessione cloacale’». E poi ancora in un cammeo come il seguente: «A maundarin tongue in poundering jowl’», che esprime «in maniera divertente la raffinatezza cinese di Pound ma anche la sua schiacciante garrulità; il gioco di parole su ‘maundarin’ (elemosinare) può suggerire come Joyce e Pound siano parti complementari dell’artista». In una delle sue fattezze, «HCE è un Pound confusionario, un sosia del saggio che venera il monte Taishan» (in Cina). E qui mi limito, perché si potrebbe continuare con l’amara elencazione di Read. Certo la menzione della «radio» (Pound parlava già da Radio Roma nel 1941) è di una perfidia incalcolabile. Eppure, questo è, in parte, Finnegans Wake, una riserva stilettante di cattiverie nei confronti di Pound (soprattutto) e di altri amici e nemici: i benefattori.
Per essere brevi, passerei all’ultima tessera di questo ambizioso mosaico fatto di curatele e rese traduttive. Intendo il biglietto da visita di ogni libro confezionato come si deve. Nel caso presente, si tratta della prefazione di Terrinoni, nella quale non mancano stilettate gratuite à la Joyce, buttate giù con incuria e divertissement, tanto per fare effetto, creare una nebbiolina pulviscolare: uno scherzetto. Vediamo, basti l’incipit, poi non andremo oltre.
«Non è difficile, infatti – afferma Terrinoni –, immaginare un Joyce sempre sorridente quando si trattava di scherzare con i fantasmi dell’autoritarismo. Avrà sorriso, sono certo, anche quando, nel 1935 scrisse di suo pugno, e in italiano, le seguenti parole: ‘Che i 17 diavoli si prendano Muscoloni e gli Alibiscindi! Perché non fanno Pound comandante in capo dei Bagonghi e non eleggono me Negus di Amblyopia?’». Credo che possa bastare sul buon gusto espresso dal nostro Negus a proposito dei muscoli del Duce e la guerra di Etiopia del 1935, l’evento che ruppe i rapporti Italia-UK e Italia-USA, sino ad allora eccellenti. Qui si pasticcia con quattro giochini di bassa ortografia. Joyce non si è mai battuto contro i «fantasmi dell’autoritarismo», e tanto meno del totalitarismo, e nei momenti di pericolo ha nascosto la testa sotto la sabbia come lo struzzo.
Chissà se si è mai affacciato alla finestra a guardare (da mezzo cieco, purtroppo) le cose di un mondo marcio e squinternato negli ideali. Quando, nel 1921, l’Irlanda (la sua patria) bruciava per l’indipendenza e la Guerra civile, egli non usciva dalla sua torre, come era solito fare Yeats a Galway, rischiando una presenza in campo a commiserare il massacro e pronunciare parole di sdegnata pietà (in The Tower). Le parole sgangherate e non insanguinate, Joyce, l’esule, le sciorinava tutte nella sua Veglia, e mai una che tradisse, magari di striscio, un qualsiasi impegno civico.
Il caso di Pound è diverso. Pound ha avuto – più o meno sbagliando sugli inganni dell’economia e, soprattutto, con il no in thunder alle guerre («Uomini siate non distruttori» Canto 117) – il coraggio di agire e rischiare. Ha pagato caro, di tasca propria, il pericolo in cui incorreva, ma oggi su certi aspetti della finanza rapace (da parte di rappresentanti di qualsiasi razza: lo affermò con chiarezza) lo si indica profeta, proprio come egli appare biblicamente nelle fotografie spettrali degli ultimi anni, quelli del silenzio: gli occhi perduti nella visione, gli eleganti cespi di folta barba, il viso scavato: «avere fatto piuttosto che non fare / questa non è vanità» (Canto 81). No, non è vanità. Il vate del secolo (o dei due secoli) può dormire sereno.