Conti alla mano alla fine, benché il presidente del consiglio abbia fatto – e fatto fare – di tutto pur di evitarlo, la pattuglia dell’Ala destra – il nuovo frankenstein parlamentare di Denis Verdini – si sta rivelando indispensabile per il cammino della riforma costituzionale al senato. Un fatto non casualmente sottolineato dal comportamento in aula dei senatori verdiniani, decisi a farsi notare, anche al di là del caso del senatore Barani accusato di aver fatto un gesto sessista all’indirizzo di una collega M5S.

I verdiniani dunque contano, e pesano. Questo nonostante l’accordo raggiunto all’interno del Pd, al quale ieri in aula la presidente Finocchiaro ha cercato di dare enfasi: non «la sconfitta di una parte», ha spiegato con voce profonda, ma «una transazione» sulla quale «non posso nascondere la soddisfazione per aver raggiunto un accordo che ha tenuto unito il mio partito e la maggioranza». Anche la minoranza Pd ha dato il suo contributo a questa interpretazione dei fatti: si è trattato di «un compromesso onesto», ha spiegato in aula Federico Fornaro, e poi in una nota con il colleghi Gotor, Lo Moro e Pegorer ha aggiunto: «C’è un fatto che non può essere disconosciuto: nel testo della riforma approvato dalla Camera i cittadini non avevano alcun ruolo nell’elezione del nuovo Senato; ora, invece, grazie anche alla determinazione della minoranza Pd, gli elettori potranno scegliere i senatori-consiglieri regionali in occasione delle elezioni regionali». Il testo, come spiegato dal manifesto già molte volte, in realtà non lo prevede.

E in ogni caso il punto è che l’estremo sacrificio della minoranza Pd, quello che l’ha portata a rinunciare alla faccia e all’elezione diretta dei senatori – per mesi sbandierata come irrinunciabile – non è servito a rallentare l’ingresso di Verdini&Co nella maggioranza. Un fatto ieri negato ma insieme curiosamente anche minimizzato dallo stesso Renzi in un’intervista a Repubblica: «Verdini e i suoi non fanno parte della maggioranza di governo. Votano le riforme non la fiducia», eppure «Verdini ormai è diventato il paravento per qualsiasi paura (…) ormai è raffigurato come una sorta di mostro di Lochness nostrano».

La minoranza Pd, non potendo negare di essere in trappola, prova a respingere l’avvento dell’era del ’partito della nazione’. Tutto dice il contrario: è notizia di questi giorni che alle primarie del Pd di Latina parteciperà un ex An. La sinistra Pd vede la tendenza e le si oppone. Ma a parole. Per Gotor il fatto che Renzi precisi che Verdini non è Lochness «ci consola fino a un certo punto perché sappiamo che il mostro di Lochness in realtà non esiste mentre Verdini e gli amici di Cosentino, Cuffaro e Lombardo purtroppo sì. Unire il Pd e stringere alleanze con questi gruppi di potere in Sicilia, Campania e Roma sono due cose che non possono stare insieme». Seguito da Roberto Speranza: «Barani, Verdini & c. meglio perderli che trovarli. Renzi ha detto che vuole unire il Pd. Allora la smetta di amoreggiare con loro». E da Francesco Boccia: «Basterebbe chiarire che con questi personaggi non faremmo mai alcun accordo politico di governo della cosa pubblica, a Roma in Parlamento come in ogni altra città italiana», «in caso contrario, sarebbe inevitabile confrontare nuove linee e una nuova idea di sinistra in un congresso che, come giustamente ricorda sempre il segretario Matteo Renzi, ci sarà nel 2017».

Il 2017 è lontano. Ma archiviata la partita delle riforme al senato, si aprirà quella non meno delicata della legge di stabilità.

Alla camera la sinistra di Sel, Fassina e Civati ha già pronta una serie di emendamenti che potrebbero essere votati da alcuni della sinistra Pd.

Quelli che ormai pensano che Verdini è troppo. Tre, massimo quattro deputati, spiegano, che preferiscono finire nella nebulosa incerta della cosa rossa piuttosto che nella certissima deriva del partito della nazione. Nel gruppo misto stanno già preparando l’accoglienza.