Non è una questione di soldi. Non ha senso, perciò, come fa la Fillea (il sindacato degli edili della Cgil), calcolare i presunti tempi di rientro per lo Stato di fronte ai costi di subentro per una eventuale revoca della concessione ad Autostrade per l’Italia. Dovrebbe spaventarci? No, perché di fronte a una tragedia epocale, qual è la vicenda del crollo del Ponte Morandi, a Genova, non è possibile legare le riflessioni e le risposte politiche ai costi da sostenere, che la Cgil giudica evidentemente eccessivi. E la scelta di un maggior controllo pubblico sulle autostrade non deve e non può dipendere solo dalle clausole di concessioni che tutelano il privato.

La decisione che pare maturare nell’esecutivo è una sorta di «rivoluzione», perché non potremmo considerare altrimenti la volontà di mettere mano al settore delle concessioni autostradali, gestori privati di un monopolio naturale che negli anni sono stati capaci di piegare la politica e le istituzioni alla propria volontà. Ha senso, perciò, analizzare alcuni punti. Tra il 2009 e il 2016 i gestori hanno cumulato utili per quasi 9 miliardi di euro, in un periodo di forte crisi economica, di traffico in caduta (per buona parte degli anni), e mentre gli italiani sprofondavano nella povertà.

Non è possibile non ascrivere ad Autostrade per l’Italia la responsabilità per quanto accaduto: il ponte (bene in concessione, funzionale alla completezza dell’infrastruttura) non c’è più; di fronte ai profili di rischio (riconosciuti e segnalati) l’azienda avrebbe potuto chiudere al traffico o ridurlo: perché non lo ha fatto? Per non generare «disagio»? Per non rinunciare a una quota dei pedaggi? Ha evidentemente agito in modo scorretto.

Il sindacato lamenta il rischio di uno «spezzatino» di appalti, almeno per quanto si legge su Repubblica: non è più rischiosa la situazione attuale, in cui i gestori autostradali sono liberi di affidare senza gara a imprese controllate fino al 60 per cento dei lavori? Occhio, questo significa che i «signori delle autostrade» guadagnano due volte: con la mano destra al casello, coi nostri pedaggi, che coprono costi d’investimento e manutenzione; con la destra, che esegue quei lavori. Perché il sindacato ha attaccato la riforma del Codice degli Appalti che chiedeva solo un po’ di concorrenza in più?

Il crollo del Ponte Morandi, la tragedia di una città, Genova, e delle famiglie delle vittime (in tutto il paese), ci impone di leggere la realtà con occhiali diversi. Che non devono vedere nessun «maledetto ponte», come ha detto ieri Matteo Renzi a Repubblica, perché «maledette» sono le scelte che hanno condotto al 14 agosto 2018. La Relazione sulle concessioni autostradali del ministero delle Infrastrutture (unico documento che da qualche anno permette di avere informazioni sommarie sul settore) nel caso di Autostrade per l’Italia non ci offre alcun dettaglio sulla singola tratta autostradale.

Non possiamo nemmeno sapere se gli investimenti in manutenzione hanno toccato la A10 o – paradosso, non è così, ovviamente ma non ne abbiamo certezza – si sono concentrati sulla A1 Milano-Napoli. Non sappiamo nemmeno quali siano le tratte in utile e quelle eventualmente in perdita e quindi (in una logica di mercato) meno appetibili. Non sappiamo, insomma, quasi niente.
È possibile imporre la trasparenza al settore? È plausibile sapere perché gli utili rappresentano in media circa il 20% dei ricavi da pedaggi (un miliardo all’anno su 5)? È possibile chiedere conto di una rendita di monopolio, di fronte ai morti, di fronte al rischio percepito da un Paese che scopre la fragilità delle infrastrutture che usa ogni giorno per spostarsi e vivere?

È possibile immaginare che ci si è resi conto di dover cambiare rotta? Lo si è fatto sulla spinta di un dolore lancinante, d’accordo, ma era comunque una decisione da prendere. Da tempo. Non torniamo indietro, alimentiamola.