È ben triste che le vicende radiotelevisive siano diventate un capitolo, tra i tanti, della trattativa politica tra Lega, Forza Italia, 5Stelle, Fratelli d’Italia. Certamente non è una novità. Come prima, però, e più di prima. Infatti, una certa dose di fariseismo e di faccia tosta portava gli interlocutori di stagioni precedenti a mantenere qualche bon ton istituzionale e a indossare i panni della formalità giuridica. Ora, in questo strano e pericoloso tempo (soprattutto per gli effetti sociali, al di là di buone intenzioni esibite), il presidente “di garanzia” della Rai vale come una pedina nelle candidature alle prossime elezioni amministrative.

Peccato che il servizio pubblico nel frattempo sia condannato a languire: sostanzialmente fuori dalla competizione per lo sport, e non avendo una rubrica di approfondimento pre-serale come La7 e Retequattro. Sono esempi. L’informazione, in attesa di capire chi avrà davvero le redini del comando, va avanti per inerzia. Per fortuna dell’azienda, la fiction regge. Lasciamo stare i vecchi e irripetibili fasti del “partito” di viale Mazzini. Tuttavia, tra la conclamata media company e una brutta copia residuale, ci sarebbero interessanti vie di mezzo, centrate sull’inclusione di nuove generazioni e sulla creatività dell’era digitale. Insomma, si metta fine alla danza macabra attorno al cavallo di Messina e ci sia un sussulto di dignità.

Nel novero dei punti del negoziato tornano in scena gli affollamenti pubblicitari in televisione. La pubblicità evoca antiche contese, ivi compreso un quesito referendario votato nel giugno del 1995, su cui il comitato promotore fu sconfitto: più dalle inerzie e dalle divergenze del centrosinistra, che dalla potenza delle destre.

Si leggono tante cose sugli anni ruggenti del conflitto mediatico, i ’90 del ‘900, ma quella scadenza è sempre rimossa. Se i referendum fossero passati, l’ascesa di Berlusconi sarebbe stata resistibilissima. Torniamo agli spot. Nelle emittenti commerciali nazionali i limiti sono: il 15% nell’intera giornata e il 18% nella singola ora con un’eccedenza del 2% da recuperare prima o dopo. E c’è la normativa sulle interruzioni dei film, figlia – almeno in parte – della grandissima campagna diretta da Fellini, Maselli, Pontecorvo, Scola condotta con pressoché tutto il cinema italiano. A occhio nudo si vedono varie infrazioni. Al di là di questo, è lecito un dubbio. Il governo dovrebbe spiegare perché non mette uno stop secco alla nuova direttiva europea sui “Servizi di Media Audiovisivi”, che sostanzialmente abolisce i tetti orari, sotto la pressione delle stazioni commerciali. Insomma, logica vorrebbe che si desse un alto là al testo di Bruxelles ormai in dirittura d’arrivo nel disinteresse dei più, e che si abrogasse la legge Gasparri ripresa dal Testo unico sulla radiodiffusione, n.177 del 2005. Ciò evoca una riforma vera, mentre le battute per negoziare si sono rivelate – con Berlusconi- un’arma spuntata. Azioni parlamentari, non diktat che fanno passare il patron di Arcore come una vittima.

Tra l’altro, i dati offerti dalla Nielsen segnalano che, tra il gennaio del 2018 e il corrispondente del 2017, la televisione cresce dell’1,4%, mentre i quotidiani scendono del 6% e i periodici dell’8,8%. Serve, quindi, una coraggiosa iniziativa di sistema, volta a riequilibrare le proporzioni tra i settori e la stessa dieta mediatica.

La carta stampata vive una crisi strutturale, che esige una visione strategica, togliendo di mezzo uscite estemporanee o afflati demagogici. E’ urgente.