In tutta Italia si sono svolte iniziative promosse dalla Federazione della stampa e dall’Ordine dei giornalisti insieme a tante associazioni come Articolo21 e Rete #Nobavaglio contro gli ingiuriosi attacchi degli esponenti di 5Stelle. Per fortuna, le dichiarazioni del presidente Mattarella sono state di conforto a chi, magari rischiando la pelle, si dedica alla ricognizione della realtà e al suo racconto.

Intendiamoci. La critica è sacrosanta e se c’è una categoria che non vi si può sottrarre è proprio quella di chi scrive o fa servizi in radio, in televisione, nel Web.

Tuttavia, negli episodi recenti, figli di una grottesca reazione «vendicativa» all’assoluzione in primo grado di Virginia Raggi, è emersa una scurrilità inaccettabile. Vera e propria violenza, ancorché simbolica. Ma quest’ultima, storicamente, quando è agita da una leadership di qualche consenso può degenerare in una messa in scena assai più cruda. «La parola è tutto», ci ammoniva Mario Luzi e dal Verbo deriva ogni cosa, secondo i sacri testi. Lo stesso utilizzo dell’insulto ha una storia, ma proprio la parolaccia ha bisogno – per non scadere nella pura pornografia espressiva – di uno stile: dalle memorabili sequenze di Dario Fo, al vernacolo, al tardo Hemingway e via di questo passo.

Ma, oltre al bon ton, qui è in gioco la libertà di informazione. Un po’ di memoria è utile. Fin dalle origini il Movimento 5 Stelle ha mal sopportato l’esistenza degli apparati comunicativi, sbrigativamente attaccati per la loro parzialità. Anzi. Una caratteristica dell’approccio pentastellato è stata la messa in stato di accusa, a prescindere, del quarto-quinto potere, a favore del «sesto»: quello dei dati naviganti nella rete, senza né dio né legge.

Perché un simile accanimento: ieri Grillo, oggi Di Maio e Di Battista? Il sospetto legittimo è che la decostruzione del sistema dei media sia la premessa indispensabile per l’apoteosi del rapporto tra l’uno e la folla, il capo verso la moltitudine aclassista e omologata. Il fenomeno viene rubricato generalmente nel capitolo «post-democrazia».Tuttavia, si avvicina tristemente all’utilizzo che, mutatis mutandis, i regimi fecero della radio: allora il mezzo di maggior potenza e diffusione.

Così pure i giornalisti-mediatori intellettuali (quando ci riescono, ovviamente) sono di troppo. Ma pure la strada, supportata dalle tecniche, del «giornalismo senza mediazione» richiederebbe non meno, bensì più cura formativa e attenzione alla crescita – non precarizzata e schiavistica- di nuove figure professionali. E sappia, il vicepremier, che la legge sull’equo compenso c’è già, anzi, la faccia applicare.

Le manifestazioni, i flash mob sono riusciti e hanno finalmente riaperto una «vertenza informazione» troppo sopita. Ben venga allora, se esiste davvero fuori dai comizi, una proposta di legge sull’editoria centrata sull’editore «puro». Prenda Luigi Di Maio Il cuore del potere. Il Corriere della Sera nel racconto di un suo storico giornalista (Chiarelettere, 2016) di Raffaele Fiengo, storico riferimento sindacale di via Solferino; di quel comitato di redazione che lanciò l’ipotesi dello «Statuto dell’impresa editoriale», che altro non era che l’ipotesi di rendere autonoma la componente informativa laddove fosse parte di società afferenti a diverse attività merceologiche.

Varie volte qualcuno ha provato a riproporre in testi parlamentari quella suggestione. Ma il berlusconismo imperante e le distrazioni della sinistra fecero cadere i buoni propositi. O – al contrario – la riforma si riduce alla chiusura del Fondo per il pluralismo e l’innovazione, come annunciato dal sottosegretario con delega?
Parolacce e chiusura di testate, questa è la salvezza annunciata?