Il balzo al 4,2% dell’inflazione statunitense di aprile ha ravvivato il dibattito sull’inflazione. Al momento sembra prevalere nettamente l’ipotesi che il fenomeno sia temporaneo e non strutturale. Non abbiamo certezze di segno opposto, ma lo scenario ci sembra assai più aperto e rientra a pieno titolo tra quelle che il geografo David Harvey definisce «le complessità assai contorte del sistema finanziario».

Indubbiamente veniamo da un lungo periodo di ristagno dei prezzi, sebbene in presenza di una massa monetaria crescente. Oggi, però, esistono diversi elementi di potenziale discontinuità che, nel loro concatenarsi, potrebbero costituire l’innesco di una fiammata inflazionistica dalle dimensioni difficilmente prevedibili.

Proviamo a elencare i fattori che potrebbero determinarla.

A monte esiste l’enorme immissione di liquidità per fronteggiare la crisi, che in questi anni ha preso prevalentemente la via finanziaria, sgocciolando pochissimo sulla domanda aggregata. Tuttavia oggi, in particolare negli Usa, una parte cospicua di moneta finisce anche, direttamente o indirettamente, nel circuito produttivo attraverso investimenti e sostegno dei consumi, contribuendo a porre le basi per una nuova domanda. Da tempo, inoltre, si parla della tesaurizzazione dei risparmi, con ingenti somme trattenute nei conti correnti.

All’effetto temporaneo sui consumi prodotto dal rinvio degli acquisti potrebbe aggiungersi il timore di una svalutazione reale dei risparmi, rendendo almeno in parte strutturale l’effetto espansivo di una riduzione di quest’ultimi. La crescita dei prezzi potrebbe essere anche favorita dal lato dell’offerta, sospinta da nuove concentrazioni e/o dalla generalizzata ricerca di un recupero dei profitti persi.

La concentrazione oligopolistica in alcuni settori procede a ritmi serrati con effetti sui prezzi. Nel settore dello shipping, ad esempio, i noli determinati da tre agglomerati che racchiudono le principali Compagnie sono aumentati da ottobre fino al 400%. Non si tratta semplicemente di strozzature delle scorte dovute ai blocchi produttivi dei vari lockdown, ma di strategie aziendali che puntano a sovraprofitti monopolistici, assorbendo l’intera catena logistica.

In un’economia ancora prevalentemente globale i costi del trasporto possono determinare a cascata aumenti di prezzo diffusi, a cui potrebbero collegarsi bruschi rincari nel settore delle «terre rare», del petrolio e delle materie prime più in generale. Una parabola che sembra coinvolgere persino settori come la metallurgia, la siderurgia o la plastica, con aumenti che arrivano a quasi il 50% tra gennaio e aprile del 2021.

Fattori temporanei? In parte sì, ma dentro alcune dinamiche strutturali: quale sarà la risposta in termini di politica monetaria ai primi segnali di surriscaldamento dei prezzi?

Difficile immaginare una stretta monetaria che metterebbe a rischio la tenuta di un sistema finanziario appesantito da una montagna crescente di debiti pubblici/privati e da bolle speculative. Una certa dose di inflazione non solo potrebbe essere tollerabile, ma addirittura auspicabile per cercare di sgonfiare almeno in parte la spirale debitoria. Il generale contesto di instabilità, le possibili guerre valutarie, i vincoli di un sistema finanziario ipertrofico, la difficoltà a elaborare strategie globali di uscita dalla crisi potrebbero disegnare un contesto in cui l’inflazione raggiunga livelli superiori a quelli considerati accettabili.

Non sarebbe la prima volta.

Esistono anche fattori di segno opposto, come la pressione al ribasso sui costi prodotta dall’innovazione tecnica e la marginalizzazione politica del lavoro, il timore dei rentiers di vedere svalutati i propri patrimoni, ma come afferma nel suo ultimo romanzo Lia Levi «la vita si scrolla di dosso ogni forma che si cerca di darle». Vedremo quali tendenze prevarranno, ma la fiammata inflazionistica è uno degli scenari che non può essere escluso.