Le guerre spesso rappresentano un acceleratore di processi già in corso. Quella in Ucraina rischia di non fare eccezione. In termini economici la crisi, prima, e il conflitto vero e proprio, dopo, hanno intensificato spinte inflazionistiche, in particolar modo nel settore energetico, finendo per dare di quest’ultime una spiegazione intesa unicamente come il frutto di contraddizioni di natura geopolitica. Il fenomeno inflazionistico ci pare, invece, più complesso da spiegare, anche in considerazione di quei fattori geopolitici tanto evocati. Innanzitutto, esistono processi frutto della crisi pandemica globale che hanno dato vita da un lato a un effetto rimbalzo dell’economia e dall’altro un interventismo monetario sinergico delle principali banche centrali e di quantità mai vista.

Ne è derivata una crescita elastica della domanda che si è sovrapposta a una carenza dell’offerta, in particolare delle materie prime, a cui si sono aggiunte strozzature e ridefinizioni strategiche delle catene commerciali nei gangli fondamentali del sistema dei trasporti. Sul versante monetario l’interventismo, diversamente dalle crisi precedenti, non ha prodotto solo inflazione finanziaria, ma dovendo fronteggiare crisi produttive, commerciali e sociali, ha finito per far «sgocciolare» moneta nell’economia non finanziaria e, almeno in alcuni settori e aree geografiche, ha determinato spinte inflazionistiche da domanda (si pensi al settore edilizio in Italia).

Non solo, la situazione debitoria e pandemica ha permesso un parziale cambiamento di linea delle autorità monetarie che hanno, vedremo per quanto, dato meno centralità all’obiettivo di un’inflazione al 2%. Tali fattori hanno avviato o favorito il fenomeno inflazionistico che per sua natura spesso finisce per autoalimentarsi in conseguenza anche di fattori psicologici. La risultante di tali tendenze è stata una crescita dei prezzi su scala internazionale a partire dal 2021 che ha già toccato punte di oltre il 7% negli Usa e oltre il 5% anche in diversi paesi europei.

Una novità che ha contraddetto l’apparente rebus degli ultimi decenni, dove al crescere della quantità di moneta non corrispondeva un effetto sulla domanda tale da generare inflazione al consumo, mentre la crescita dei prezzi faceva capolino solo negli asset finanziari. Innovazione tecnologica, pressioni sui salari, ipercompetizione contribuivano a mantenere bassi i prezzi. Oggi il conflitto militare acuisce ulteriormente il fenomeno inflazionistico già in essere, ma per alcuni aspetti lo stesso scontro bellico è frutto della nuova fase economica e della crescita del prezzo del gas che ha reso Putin più forte rispetto all’Europa. La Russia, infatti, ha intensificato notevolmente gli scambi commerciali con la Cina, i quali solo nel 2021 sono aumentati di oltre il 35%, raggiungendo il valore record di 146 miliardi di dollari.

La crescita è la risultante anche della vendita di gas all’Impero Celeste, che scommette su questo idrocarburo con l’obiettivo di ridurre le emissioni. Una vendita che si è concretizzata solo a partire dalla fine del 2019, con commesse cresciute da 0,328 miliardi di metri cubi a 4,101 miliardi di metri cubi nel corso del 2020. L’export di gas russo sebbene non raggiunga ancora le punte del 2018, cresce in maniera decisa, contribuendo a spostare verso l’Asia il baricentro commerciale del paese. L’affrancamento dall’Europa ha reso nel tempo più forte contrattualmente la Russia.

D’altro canto, il Vecchio Continente nulla ha fatto per emanciparsi negli anni dalle forniture di gas proveniente da Oriente. Se è vero che oggi l’inflazione sarà ulteriormente alimentata dal fattore geopolitico, è anche vero che le dinamiche di mercato che hanno innescato l’inflazione sono preesistenti ed hanno giocato un ruolo attivo nella stessa dinamica che ha portato allo scoppio della guerra. Il fenomeno ha caratteristiche strutturali più di quanto solitamente si voglia intendere e ammettere.