Il cadavere di una giovane donna trovato in mezzo a una distesa di neve. È morta di freddo e sfinimento dopo aver corso a lungo nei boschi, a piedi nudi, fuggendo da chi l’aveva picchiata e violentata. Taylor Sheridan contrasta lo sfondo bianchissimo, deserto e silenzioso con questa premessa brutale. Siamo a Wind River, nel cuore del Wyoming, una delle riserve indiane più vaste degli State, oggi popolata da una maggioranza di nativi americani Arapaho e Eastern Shoshone. Il film, I segreti di Wind River, è l’ultimo capitolo di quella che Sheridan ha definito la sua «Trilogia della frontiera» – un viaggio nel western iniziato, con Sicario, al confine con il Messico, nel macello del narcotraffico, proseguito nel Texas depresso di Hell and High Water e che si conclude a migliaia di chilometri di distanza, con questo noir nordico, che ci riporta alla macchia originale del grande mito della frontiera Usa, il genocidio dei native americans.

Nominato all’Oscar per la sceneggiatura di Hell and High Water e autore anche del sequel di Sicario, Soldado, diretto da Stefano Sollima, e atteso per l’estate (se non addirittura a Cannes), Sheridan ha diretto I segreti di Wind River per quello che chiama il suo vero debutto alla regia. È, tra quelle che ha raccontato finora – ha detto lui – la storia che gli è «spiritualmente» più vicina. Nato e cresciuto in Texas, il quarantottenne sceneggiatore/regista, ha infatti iniziato a studiare la cultura indiana e a frequentare per lunghi periodi la riserva di Pine Ridge, in North Dakota, poco dopo essersi trasferito e aver cominciato la carriera di attore a Los Angeles. La serie tv Sons of Anarchy è il suo credit più famoso davanti alla macchina da presa.

Violenti, asciutti, profondamente radicati nel paesaggio geografico ma anche sociale che li circonda, i racconti western di Taylor Sheridan non hanno la dimensione meta, cinefila o barocca di tanti rivisitazioni del genere. Il loro taglio è strettamente contemporaneo, venato di un realismo privo di sentimental-moralismi.

I suoi personaggi vittime di decisioni politiche ed economiche prese in luoghi e circostanze distanti come altri pianeti, ma contro i cui effetti loro devono lottare tutti i giorni. In I segreti di Wind River, Cory Lambert (Jeremy Renner) è il guardacaccia che – zigzagando le montagne gelate a bordo di una motoslitta – scopre il cadavere della ragazza indiana, un omicidio che – essendo avvenuto nella riserva – cade sotto la giurisdizione del governo federale, non dello stato; quindi dell’Fbi. Per risolverlo, Washington manda a Wind River una giovane principiante, Jane Banner (Elizabeth Olsen). La sua alterità, apparente fragilità fisica e inesperienza i segni di quanto poco importante sia un caso del genere nell’ordine del Federal Bureau, ma anche una metafora dell’insormontabilità di tutti i problemi che stanno a monte di quel particolare omicidio.

Solitario, segnato da un passato con cui non riesce a riconciliarsi, e che in qualche modo lo lega al padre della ragazza morta, il «trapper» Lambert è una creatura di mezzo – non proprio un ibrido di culture ma un’ombra tragica la cui alienazione personale sembra affine a quella di certi abitanti della riserva. Anche se un po’ controvoglia, accetta di fare da guida a Banner nel corso dell’inchiesta e ne diventa l’interprete, il filtro, in un percorso che ha momenti e dettagli molto belli, verso un finale durissimo, coreografato tra fatiscenti roulotte di metallo, nella foresta. Acquistato da Harvey Weinstein dopo la prima mondiale a Sundance 2017, I segreti di Wind River è stato uno dei film meglio recensiti negli Usa dell’anno scorso, inghiottito purtroppo -poco dopo la sua uscita- dagli strascichi dell’Harveygate.