Nella sala dedicata all’arte contemporanea del Museo di Città di Livorno, allestita nella chiesa sconsacrata di Piazza del Luogo Pio, il pubblico attende impaziente Letizia Battaglia. Il suo caschetto rosa, una cornice sbarazzina al suo sguardo vibrante, spunta tra gli stucchi barocchi che circondano la sala. La folla, appoggiata alle pareti e seduta per terra, l’accoglie con un lungo applauso, mentre lei si siede tra le autorità e con una macchina digitale scatta foto al pubblico, divertita. La mattina le è stata conferita la cittadinanza onoraria e le prime parole di ringraziamento sono commosse: «È la prima volta-non era mai accaduto- che una città mi annovera tra i suoi cittadini. Ma c’è sempre una prima volta». Dopo la grande personale del MAXXI di Roma nel 2017, le mostre di Venezia, e recentemente di Cagliari, al festival Pazza Idea, la fotografa più importante della storia del ‘900 italiano arriva a Livorno per inaugurare una personale, “Letizia Battaglia” allestita nell’edificio dei Granai di Villa Mimbelli e visitabile fino al 15 marzo. La fotografa, “una giovane di 83 anni”, come la definisce il curatore della mostra, Serafino Fasulo, nell’apertura del catalogo dell’esposizione-è stata invitata nel contesto del progetto “Fotografia e mondo del lavoro” ideato e promosso dalla Fondazione Laviosa, di cui Fasulo è direttore artistico.

«Letizia è l’ospite perfetta per il progetto. È la prima fotoreporter italiana a lavorare per una testata giornalistica come fotografa: dopo l’inizi come giornalista, quando dalla redazione le chiesero immagini per corredare i suoi articoli cominciò a scattare, per necessità, per lavoro. Si era separata dal marito e si era appena trasferita Milano e questo accadeva prima del 1975, in un’Italia ancora molto bigotta. Grazie alla sua cultura visiva, il suo sguardo si affina e la sua fotografia acquisisce spessore e identità propria. Tutt’oggi Letizia è una lavoratrice indefessa-sta organizzando l’Archivio fotografico della città di Palermo e un paio di anni fa si è battuta per l’apertura del Centro Internazionale di Fotografia nei Cantieri culturali della Zisa». Con la serietà onesta e trasparente di chi da sempre lavorato duro, Letizia Battaglia affronta la platea affollatissima, e si concede a lungo durante l’incontro, dedicato, in buona parte, come le sue foto, a Palermo, città alla quale ritorna felice e che Letizia racconta attraverso la cronaca degli eventi mafiosi e di una quotidianità umile e disperata, città dove la povertà è vissuta in certi ambienti come normalità, e per la cui redenzione lei, ancora oggi, lotta.

PALERMO

«Palermo mi emoziona sempre, la continuo a fotografare. Palermo è piena di cose, cose belle e brutte. Come un amore. Palermo sono le bambine che continuano a guardare con occhi pieni di sogni. Laddove ci sono molte difficoltà i sogni sono belli, sono forti. Palermo è come una bambina, che vuole crescere, diventare grande, diventare la maestra, o la principessa, sogna di diventare una persona felice. Palermo ha sognato per tanti anni e proprio recentemente, qualcosa si sta realizzando. Non bisogna pensare che la Mafia non ci sia più, perché invece c’è sempre anche se è nascosta sotto vesti politiche, o di giustizia…si nasconde ovunque, vabbè…Palermo però si sta svegliando: la gente vuole incontrare la cultura, la giustizia. È già tanto: due anni fa ero più preoccupata. Adesso va meglio, abbiamo chiaramente detto chi siamo e chi non siamo, rispetto a questa cosa degli immigrati che il mio sindaco Leoluca Orlando sta affrontando con noi, anche attraverso la presenza di alcuni ragazzi arrivati coi barconi dentro al centro di fotografia. Ci stiamo muovendo, su queste cose che potrebbero sembrare minime, ma sono importantissime.

I MORTI AMMAZZATI: FOTOGRAFARE LA MAFIA

«Quando ho cominciato il mio obiettivo era essere economicamente autonoma. Avevo già 37 anni, ero stata in analisi, un’analisi freudiana che mi aveva insegnato cose molto importanti. A Milano, come giornalista, proponevo i miei servizi da free lance, al Corriere, al Giorno…un’amica mi regalò una macchinetta per iniziare. Ero curiosa, talvolta un po’ angosciata, ribelle: cominciai a cercare le cose che mi piacevano. Cercai Pasolini e lo fotografai e ancora oggi sono felice di averlo fatto, Dario Fo…cercavo personaggi che potessero soddisfare la mia sete di conoscenza, di emozioni. Mi ricordo Mario Capanna, leader del movimento studentesco nel ’68. Per tre anni continuai a fotografare. Ma la passione arrivò dopo, quando L’ora, il giornale di Palermo mi chiese di tornare e lavorare per la sua redazione. Tornai che avevo quasi 40 anni, una donna determinata a portare avanti un’identità. Cominciai a lavorare con uno staff giovane di fotografi e arrivò la passione: ero lì con la macchina fotografica a documentare i fatti incredibilmente duri e pesanti, per tutta la città. La notte non si usciva, eravamo angosciati. Mi tocca sempre parlare dei morti ammazzati…comunque la mafia da Corleone arrivò a Palermo, si fecero la guerra tra loro e poi i vincitori, i corleonesi, iniziarono a distruggere coloro che potevano intralciarli, i giudici che avevano lavorato alla legge per confiscare i terreni alla mafia, tutti quelli che cercavano giustizia. Poliziotti, giudici, medici. E noi eravamo là, in prima linea, anche se non ero assunta (ho lavorato al nero per 19 anni) avevo occasione di lavorare in questi contesti di opposizione, di lotta. Come donna non fu facile. Ero biondina allora, vestivo con le gonne lunghe, gli zoccoli, non ero credibile. Ma facevo delle foto migliori, in senso giornalistico. Stavo lì di più, lavoravo tanto e componevo archivi che ancora esamino». Ma come sopravvivere a tanto coinvolgimento, a tanto dolore?

«Non si sopravvive. Dopo l’omicidio di Falcone e Borsellino ho perso le speranze. Sono andata a vivere a Parigi, non reggevo la mazzata politica. Avevamo lottato e perso, non era cambiato niente. Il sangue che colava, le bocche aperte e senza respiro, i bambini e tutti dintorno alla tragedia siciliana».

Con la cronaca di quei tempi terribili, con la documentazione sistematica e precisa della guerra di mafia, Letizia aveva trovato il suo sguardo, la sua cifra stilistica. Aveva scoperto il suo talento.

IL TALENTO

«Il talento però è difficile da definire. Credo che possa essere collegato alla cultura, alla curiosità, alle opere viste, ai film, ai dipinti, alle foto. Il talento dipende anche dall’intelligenza. Ci sono fotografi ignoranti che fanno foto buone. Ma come si fa a dire quando una fotografia è buona? Anche per questo mi piace vedere il lavoro dei giovani, basta una parola a volte per indirizzare una persona che ama ciò che fa. Il talento ha bisogno di maestri e dev’essere sostenuto da una ricerca continua e dall’umiltà, di saper capire quando stiamo sbagliando. Per diventare bravo, bisogna essere quello che siamo: chi fa arte o scatta, deve far vibrare quello che è, se si è cattivi si faranno foto spietate, se siamo compassionevoli, faremo foto compassionevoli. Bisogna essere dentro al proprio lavoro, proporre una foto come narrazione del sé dentro a quella realtà. Ricordo la nausea potente di fronte ai morti ammazzati, quella sensazione allo stomaco, ma ho cercato sempre di avere rispetto per la morte altrui.

E in quanto donna ho avuto difficoltà in un mondo di delitti e poliziotti, così maschile; Leoluca Bagarella era inferocito quando venne arrestato e mi sferrò un calcio, che per fortuna non mi prese: io lo fotografai con rispetto, senza sublimarlo, ma con umanità. Quando sono entrata nelle case, invece, è stato più semplice: le donne e i bambini hanno avuto fiducia di me».

DAGLI ANNI ’00 AD OGGI

Il giorno dopo in hotel mi dice di essere affaticata dopo la gran giornata; nel pomeriggio l’aspetta ancora l’inaugurazione, un evento che a posteriori registrerà un’affluenza che la città di Livorno non ha praticamente mai sperimentato. Il taglio a caschetto rosa è comunque ancora perfetto e la fotografa concorda con me sul fatto che le doni più del verde di qualche tempo fa. È brillante e vicina, Letizia Battaglia, nella cui carriera il mestiere diventa all’arte e il documento, capolavoro: prima fotoreporter donna in Italia, narratrice della sua Palermo amata, straziata negli anni’80 dalla guerra di mafia, e delle sue idiosincrasie. Ritrattista delle bambine sognanti, dei quartieri popolari, della decadenza della nobiltà, interprete in bianco e nero della bellezza e dell’orrore, legate a doppio filo, indissolubili nelle sue foto.

Come cambiano questi due concetti opposti negli anni nel tuo lavoro?

In questo periodo sto facendo nudo, nudo femminile, che contiene questi due elementi, soltanto che la presenza di una donna in una scena che io visualizzo con la macchina fotografica riesce a dominare l’orrore. Il corpo femminile, sia esso giovane o vecchio, di bambina o di anziana, è salvifico. È vita perenne per la possibilità di fare figli. Mi interessa questo oggi, salvarmi, perché tutto è stato molto drammatico. Ho trovato nelle bambine un modo per salvarmi. Quando avevo 10 anni-io e la mia famiglia tornavamo da Trieste dopo la guerra- e un signore si esibì: io non sapevo niente di sesso e corsi a raccontarlo ai miei. Mio padre mi chiuse in casa, io persi la mia libertà per colpa di un mascalzone. Per cui mi sposai giovane, a 16 anni, trascinandomi dietro questa gabbia. Le bambine mi ricordano la libertà perduta. La macchina fotografica, 20 anni dopo, mi ha dato il diritto di essere una persona autentica e indipendente, è stata uno strumento meraviglioso e assoluto per non essere sola e al tempo stesso indipendente.

I tuoi recenti lavori del ciclo “Rielaborazioni” rientrano in questo processo?

I fatti che fotografavo, ai quali avevo assistito mi hanno reso insopportabili le foto dei morti ammazzati; questo lavoro, forse non è magnifico, ma mi è servito. Ho messo una donna, di fronte a vecchie foto di un assassino, di un boss, o di cadaveri: una donna che crea un punctum più positivo. Mettendo il pube di una donna in primo piano, il morto ammazzato è più lontano. Sono giochi, tentativi per non soccombere all’orrore. Mi è anche servito fare gli “Invincibili”, una serie di foto molto recenti in cui mi sono guardata indietro in cerca dei miei maestri, e li ho trovati tra persone conosciute, grandi del pensiero e dell’azione: ho incominciato con Pier Paolo Pasolini, che fortunatamente andai a cercare in un convegno e lo trovai, non ero ancora fotografa, ma mi vennero foto buone. Lo continuo a guardare con attenzione e riconoscenza. Poi ci fu Ezra Pound per la sua frase “strappa da te la vanità, ti dico strappala” che è stata per me un riferimento importante: esserci, lavorare, ma non per vanità. Per me Gesù è come Che Guevara, mi ha dato tanto. Rosa Parks, Pina Bausch, per il suo lavoro costante, doloroso e bellissimo. Alla prima di Kontakthof, che vidi a Parigi, ero in prima fila e vidi che le ballerine avevano i peli sulle gambe. Mi sembrò una cosa oltraggiosa. Mi piacque molto. Poi ci sono Falcone e Borsellino, sono molti…comunque io sono atea, ma c’è a Firenze un piccolo Gesù, nella chiesa di Santo Spirito che mi colpisce molto. È stato scolpito da Michelangelo quando aveva 17 anni, è nudo, col cazzo di fuori. Ho preso una foto che gli ha fatto Giovanni Senzani, un amico, ex brigatista, che ha scontato 22 anni di carcere, e ci ho montato intorno più di 50 foto, ossessive. Una cosa personale ed elegante. E poi Freud, montato con le foto del mio psicanalista. Dopo questi lavori, sono arrivata al nudo, essenziale, su cui sto ancora lavorando.

La dignità che emana da ogni tuo scatto è ormai quasi scomparsa dal nostro tempo, soprattutto tra coloro che dovrebbero promuoverla. Abbiamo politici beceri e impuniti che usano il linguaggio delle immagini in modo sconsiderato…

Io credo che aldilà della fotografia, stia trionfando l’orrore, la mancanza di rispetto, l’egoismo, è questa la parola. Salvini è là per sé stesso. Davanti a Cesare Battisti vuole dimostrare che lui ha vinto…ma cosa ha vinto? Ho cercato in televisione e nei giornali qualcuno che si fosse posto un interrogativo su quest’arresto, sul significato che abbia dopo 40 anni. A prescindere da quest’episodio, Salvini è una preoccupazione costante, umiliante, nella nostra vita. Ci sta facendo male, ci sta diseducando. In Sicilia lo amano. Io non lo accetto, ma non basta. Siamo finiti male noi della sinistra, non so se sia stato il consumismo, la globalizzazione. Lui è il risultato di una diseducazione profonda.

Se tu iniziassi oggi a fotografare come fotoreporter…

Sicuramente sarei su una barca con gli immigrati, a raccontare il loro dolore, come stanno facendo molti bravi fotografi. Al Centro a Palermo (il Centro Internazionale di Fotografia che dirige) c’è questo ragazzo, bellissimo, appena 18enne, timido e talentuoso, pittore, è terrorizzato. Gli abbiamo chiesto se era contento della mostra che stiamo organizzando, ma lui non dice molto, si capisce che ci crede poco nel suo futuro. Sono piccolissime cose, il sindaco Leoluca Orlando sta cercando di fare qualcosa in questo senso, contro il decreto sicurezza, ma perde, perché la legge è legge, a meno che il ricorso non funzioni. Speriamo, io gli sono molto grata a Orlando, che è scomodo e che vogliono far cadere, la burocrazia lo ostacola, nonostante lui stia molto attento e lavori moltissimo.

Torniamo alla fotografia. Menzioni Joseph Koudelka e di Diane Arbus tra i tuoi fotografi preferiti. Cosa ti piace del loro lavoro?

La verità che emanano, la loro propria verità che viene fuori nelle foto. Lei si è tolta la vita, cosa che nella mia mente è inconcepibile…Pensa che dirigo un giornale che si chiama Mezzocielo e-sono una stronza- non ho permesso di pubblicare le poetesse suicide. Ma Diane Arbus è riuscita a trasferire la forza delle sue paure, dei suoi demoni, nelle sue foto, era schiacciata da questo mondo mostruoso che fotografava. Koudelka è un maestro di coerenza nella vita e nel lavoro: è essenziale, frugale, elegante, non consumistico, non vanitoso. La serietà.

Che è successo alla cultura fotografica, che responsabilità hanno i social?

Allora, non è che la fotografia ha perso, non è che il computer è meglio o peggio della piuma per scrivere, i linguaggi possono essere involuti o poveri, con una penna puoi scrivere “Strappa da te la vanità…” e poi scrivere una lettera anonima. La macchina fotografica da sé non è arte o cultura, è come la senti dentro e come la usi. Io avevo bisogno di avere questo strumento estraneo. Comunque è strano come in tutte le interviste nessuno mi faccia domande sulla vecchiaia, che cos’è cambiare, avere le rughe, io ero carina, adesso sono un a donna di 84 anni, me la farei io stessa questa domanda…

Non le facciamo perché ti vediamo con lo sguardo rivolto al futuro…

Sì ma non è che sono eterna…chiudiamo così.

Letizia dopo un incontro al Museo Pecci di Prato è volata in America al Sundance Festival, dove in questi giorni è stato proiettato Shooting the mafia, il documentario dedicato alla sua vita, diretto da Kim Longinotto, che arriva la prossima settimana alla Berlinale. Buon viaggio e buona fortuna, incessante Battaglia.