Di fronte a Raoul, coffee shop di Notting Hill, una lavanderia porta l’insegna My Beautiful Laundrette, il titolo che nell’85 ha lanciato Stephen Frears. « Quell’insegna è venuta dopo il film, in suo omaggio. Ma – frena subito il cineasta, con la consueta, pungente modestia – non credo che i proprietari l’abbiano mai visto ». In costante, britannico equilibrio tra ironia e autoironia, Frears, che il 20 giugno compirà 77 anni, gioca al monello perenne, all’indisciplinato di genio. Fiero delle sue provocazioni, stempera gli abituali attacchi frontali, alla politica e al sistema produttivo, nel largo sorriso d’orso bonaccione: in un angolo di bar, infilato dentro pantaloni senza piega e un maglione senza camicia, con giro di sciarpa penzoloni fino alla pancia, il regista rischiara l’aria con la trasparenza azzurra del suo sguardo arguto, lumicino gentile su una mole altrimenti minacciosa. Più pacato rispetto al passato, quando lanciava strali contro Tony Blair («Non sono per la pena di morte, ma nel suo caso farei eccezione ») o contro il degrado dello spettacolo cinematografico (« Darei fuoco alla sala dove si proietta un film che non mi dà esaltazione mentale »), Frears oggi restringe i suoi campi di battaglia: « Per tenere a bada la troupe, si può andare sul set con una pistola. Con gli spettatori, la soluzione è forse meno semplice ». Pistola scarica o interpreti diligentissimi, c’è da dedurre davanti all’invidiabile tapis rouge di ‘sopravvissuti’, da Daniel Day-Lewis (ai suoi esordi nell’85) a John Malkovitch, a Glenn Close, Michelle Pfeiffer, Uma Thurman, Dustin Hoffman, Helen Mirren, Anjelica Huston, Kathy Bates, Julia Roberts, Gary Oldman, che han popolato i suoi magnifici film, riproposti a Lucca e Europa Cinema: una lunga festa di premi, da Cannes a Venezia, agli Oscar, dal film d’esordio Sequestro pericoloso (1972) ai recenti Florence (2016) e Vittoria e Abdul (2017), a VendettaRischiose abitudini e gli indimenticabili Le relazioni pericolose, Alta fedeltà, The Queen, Tamara Drewe, Eroe per caso o Lady Henderson presenta, dove sfolgora l’ineguagliabile Judi Dench, tre volte nel cinema di Frears. Negli incontri con il pubblico (con rituale epilogo di  premio alla carriera), divenuti frequenti in Italia – alla scorsa Mostra di Venezia, 5 anni fa al Bif&st di Bari e adesso (dall’8 al 15) al Lucca Film Festival e Europa Cinema –, il regista si dondola tra boutades e risposte al risparmio: quasi un remake delle interviste a John Ford, monosillabi in replica a domande sterminate. Ma nei faccia a faccia, il guardingo Frears si liquefa in affabile lago.

Perché questo cambiamento?

In pubblico, ho l’impressione che la gente non creda a quel che dico. Perciò mi attengo allo scherzo. Ma, soprattutto, non ho il talento del racconto: sono un artigiano del cinema – anche Fellini lo diceva di sé -, non sono capace di spiegare quel che faccio. Chiedetemi film, non discorsi.

Da cine-‘artigiano’ non si può certo lamentare dei risultati.

Tanto più che per me sono stati inattesi. Sono un regista per caso. Da giovane, mai m’era passata l’idea per la testa: non sospettavo nemmeno che esistesse il mestiere di cineasta. Me ne stavo tranquillo, e annoiato, al Trinity College dell’Università di Cambridge, dove mi ero trasferito a 18 anni dal paesello natale di Leicester, a studiare giurisprudenza. È lì che ho cominciato a frequentare il teatro: da cui mi son fatto docilmente sequestrare, anche perché avevo capito che, con le regie, si poteva mettere in tasca qualcosa.

Nella sua ‘via di Damasco’ c’eran già stati pre-allarmi?

Il London Film Festival, che nel 1957 a me sedicenne aveva spalancato un mondo nuovo: il cinema europeo, soprattutto italiano e francese. È stato l’inizio di una passione, per Renoir, la Nouvelle Vague, per quei registi che tutti amiamo: i primi che parlavano della nostra realtà sociale, i maestri del mio cinema e di altri della mia generazione.

Prima del cinema, lei ha navigato  in tv, nella magica era BBC.

Sì, dopo essere stato assistente di Karel Reisz, vi avevo scodellato nel ‘72 il primo titolo, Sequestro pericoloso. È stata, per tutti, un’età d’oro: precedente all’età di ferro di Lady Thatcher. Una Gran Bretagna modellata a Paese socialista, con uno Stato protettivo delle produzioni BBC e di ogni forma di cultura. Ma anche su di noi s’è rovesciata presto l’ossessione del profitto, dei grandi numeri, con tutti i meccanismi del capitalismo: che vita dura, dopo».

Riflessa in My Beautiful Laundrette?

È il film che ritrae la brutalità sociale della Gran Bretagna nell’era Thatcher. Per uno di quei paradossi insondabili che si fan beffe di noi e delle nostre migliori intenzioni, il mio durissimo attacco al thatcherismo s’è ribaltato, grazie al successo del film, in un punto a favore della politica mediatica della Lady di ferro: ecco la prova  d’un prodotto di qualità ma, quel che più conta, dal sicuro ritorno commerciale. Insomma, una bella soddisfazione ma anche un boomerang per me.

Tuttavia, nei suoi viavai internazionali, tra cui l’immancabile Hollywood, ha finito per tornare all’ovile britannico.

In Gran Bretagna, c’è di bello che molta gente passa il tempo a scrivere storie, mentre molti altri si applicano a rappresentarle. Non mi sono nemmeno messo in coda: ho preso un po’ come capitava qua e là, in modo inconscio. Come avviene con una moglie, che ti trovi accanto senza ricordarti com’è successo.

Gli interpreti, però, che sono le pietre preziose del suo cinema, escono da una selezione ragionata?

No, anche gli attori, lascio che vengano scelti dalle storie. Prendiamo la Pfeiffer e Malkovitch in Relazioni pericolose: entrambi estremamente sexy, non potevano che innamorarsi l’uno dell’altra. Filmarli è stato un gioco da ragazzi. Al contrario di Elia Kazan che forgiava gli attori, io li prendo come sono, già pronti. Pure con Daniel Day-Lewis, oggi super-oscarizzato e superpagato, è avvenuto lo stesso: quando l’ho cercato per My Beautiful Laundrette, era giovane, sconosciuto e poco costoso. Il mio problema è sempre stato un cinema cheap, iper-economico. E lui era lì, l’attore giusto per me, lancia in resta per cambiare un po’ tutto. Perché la regola prima di una rivoluzione con garanzie di successo è che ci sia qualcuno su cui contare e che si trovi lì in quel momento. Come Anna Magnani quando Rossellini ha girato Roma città aperta. Daniel Day-Lewis è stato la mia Anna Magnani.

Anche nella vita, nelle fasi di cambiamento, ha potuto contare su qualcuno a lei vicino?

Ho avuto una madre molto forte. E ho sposato due donne molto forti, da cui sono nati quattro figli: il primo, Will, è lui pure regista, a Hollywood, e padre di due figli. Sono nonno, ma con un oceano in mezzo tra me e i nipotini. Spero di essere stato io, per mio figlio, la persona giusta su cui contare, quando ne ha avuto bisogno. Se vuoi aiutare un figlio, devi lasciarlo libero di scegliere. Quando ha voluto diventare regista, trasferendosi in Usa, gli ho detto: Va’. Ha cominciato a farsi conoscere. Spero diventi il nuovo Frears, prima ancora che me ne sia andato.

Ha mai subìto censure, nella sua critica tagliente alle ipocrisie, borghesi o cattoliche?

Avrei forse rischiato, in altra epoca, con Philomena, dove Judi Dench rivuole il figlio che l’intransigente Chiesa cattolica le ha sottratto perché ragazza-madre irlandese. Ma il film è uscito 4 anni fa, quando da voi c’era già questo nuovo papa, dall’aria così simpatica.

E da ficcanaso nel Buckingham Palace, come se la cava?

Sono animato da scrupolo missionario : insegnare come stare al mondo. Non sono mancati  gli ostacoli, preventivi, quando nel 2006, con The Queen, tra mille acrobazie, sono entrato nei luoghi augusti e angusti del regno britannico, per trarne un ritratto meno imbalsamato di Elisabetta II e della famiglia reale nei giorni del crash di Lady D. Quando è morta ero in Messico a girare un western. Ne ho percepito la tragedia, ma ho perso l’evento. Il film, infatti, è sulla quotidianità della monarchia, non sulla fatalità di un’auto principesca finita in un tunnel.

Con Vittoria e Abdul  ha fatto il bis: che rapporto ha con la monarchia di casa?

In Gran Bretagna, amiamo tutti la regina,  perché ci fa pensare alla mamma. Ci lega un affetto domestico. Ciò non toglie che sia un’istituzione stupida. Senza parlare dell’Impero britannico, un orrore che ha arricchito il Paese.

Lei ha mani palmari, gonfie di schiaffi mai dati. A quanti li avrebbe rifilati con gusto?

Quando ho cominciato a fare il regista, ho rivissuto l’incubo dell’insegnante, con attorno gente da rispedire al posto con una pedata. Anche il set è spesso una scuola d’incompetenti o prepotenti, i produttori in prima fila: da prendere a pugni. Ma, a differenza dei professorini in cattedra, i produttori più indisponenti spesso conoscono bene il loro mestiere. Unico caso nella storia dell’umanità in cui i peggiori sono i migliori.

 

LUCCA FILM FESTIVAL E EUROPA CINEMA

Stephen Frears , Martin Freeman, Rupert Everett, Anton Corbijn, Sabina Guzzanti, Laura Morante sono i protagonisti del Lucca Film Festival e Europa Cinema 2018, dall’8 al 15 aprile a Lucca e Viareggio. Omaggi, premi e incontri integrano il concorso internazionale con 14 film in prima italiana, le anteprime fuori concorso e il concorso internazionale di corti. La mostra «Luchino Visconti. Alla ricerca del tempo perduto. Storia di un film mai realizzato» a Palazzo Ducale prodotta dal Centro Sperimentale e «Cinema d’arte. Dietro le quintei delle produzioni artistiche Sky »nel «mezzanino» della Fondazione Ragghianti  (fino al 23)