La casa è un fondale dipinto, con colori terrosi e un effetto flou che allontana ogni tentazione realistica. Davanti, posano alcune famiglie albanesi che quella casa, proprio la stessa, l’hanno lasciata anni fa. Sono andati via e delle strade di un tempo, dei panni stesi, dei mobili del salone conservano solo un ricordo. Probabilmente, provano nostalgia; sicuramente, mentre vengono ritratti in quel «vuoto» fisico, la loro mente è attraversata da rapidi flashback dove si inanellano immagini perdute, pomeriggi estivi polverosi, voci di bambini, musiche a tutto volume dalle finestre aperte.
Il set allestito è quello di Back Home, la serie a cui l’artista Adrian Paci ha lavorato nel 2001. Sarebbe semplice usare la cronaca di questi giorni – gli sbarchi di Lampedusa con i suoi morti in mare, i sogni spezzati dalla selva di bare – per raccontare l’arte di Paci sfruttando paragoni emotivi, ma non si può fare. Non è dei migranti che parla questo pittore – convertito alla fotografia e al video – nato a Scutari, in Albania nel 1969 e poi arrivato in Italia, all’inizio con una borsa di studio e infine per destino, in fuga con la sua famiglia da un paese prima tenuto col pugno di ferro, in seguito diventato difficile e spinoso.
Il corpus di opere di questo autore non si può ridurre a una mera illustrazione dello stato di fatto delle migrazioni né degli esili a cui si è costretti dalla Storia, perché Paci tiene moltissimo a specificare che a lui ciò che interessa «è la sospensione, quelle tensioni che si generano nei momenti di passaggio, l’essere ’tra’ due luoghi». Anche quando il tema è la casa, «l’attenzione è tutta per la sua mancanza – dice -. In un contesto di cambiamento radicale, dobbiamo sviluppare delle strategie di sopravvivenza e l’idea di un ritorno a casa è una di queste…». L’assenza è densa di fermenti, è uno stato di perdita, anche una voragine di identità, che conduce inevitabilmente verso dei mutamenti e, quindi, nuove possibilità.
Così, per lo stesso principio qui enunciato, l’uomo che porta su di sé il «peso» del tetto – forse una delle sue opere più celebri, Home to go – è allo stesso tempo colui che cade e colui che si rialza, angelo e demone, individuo espulso (e nudo), ma anche messaggero in viaggio, in bilico tra due luoghi, quello abbandonato e l’approdo futuro. L’unico riparo è fatto di tegole resistenti, è una «rovina» che prende il posto delle mura solide della propria abitazionee può trasformarsi in un punto di partenza. Anche in una possibilità di spiccare il volo, se il tetto che rovescia il corpo e lo schiaccia a terra, vinto dalla gravità, viene sognato in forma di ali, capovolto in un desiderio aereo.
Adrian Paci è il protagonista assoluto di una mostra che si è aperta da poco al Pac di Milano (visitabile fino al 6 gennaio 2014), sua città di adozione fin dal 1997. A cura di Paola Nicolin e Alessandro Rabottini, Vite in transito vanta un’intensità quasi da scossa elettrica, presentando – in una successione piuttosto libera – un’ampia selezione di opere realizzate a partire dalla metà degli anni Novanta, da quelle (proto)storie albanesi raccontate con la voce della figlia-bambina Jolanda, fino alla produzione più recente, con The Column (2013) dove viene proposta l’incredibile storia delle navi-fabbrica, mezzi di trasporto in cui gli operai cinesi costruiscono, durante il viaggio, la merce che dovrà giungere a destinazione, risparmiando sul tempo e alzando i profitti dei loro padroni.
«Sono un pittore che faccio video», dice Paci assertivo. Lui, rimasto orfano di padre (a sua volta pittore) a sei anni, che studente si è formato sfogliando i libri dei grandi maestri e che quando è partito dall’Albania ha sfilacciato ogni riferimento, anche artistico, dovendo ricominciare da zero, esplicita la sua vocazione narrativa fin da subito. Nella prima sala del Pac, infatti, ci sono i quadri (piccoli) dedicati a Pasolini o ad altri frames del cinema. Sono storie raccontate per passaggi ellittici, per spleen improvvisi, per congelamenti di istanti preziosi. Pagine visive divenute concrezioni materiche, quasi a sfidare i codici di linguaggi diversi, letteratura, cinema, arte. «Il video mi è arrivato con tutta la sua freschezza, l’ho avvicinato in maniera amatoriale, mi ha aiutato a liberare la pittura da compiacimenti inutili e da citazioni colte…».
Essere artisti in Albania può significare cose molto diverse rispetto ad esserlo in Italia. In Piktori, per esempio, Paci è entrato nella baracca-laboratorio di un uomo che, oltre a dipingere, è capace di falsificare tutto, compresi i diplomi e i documenti. La sua funzione sociale è quella dell’antico rapsodo e insieme guaritore (nel senso di «solutore di problemi»). Adrian gli ha chiesto un certificato di morte, a dimostrazione che i «riti di passaggio» vanno sottolineati con gesti e oggetti-feticci. Evidentemente poco superstizioso, ha poi reiterato la sua «sparizione» mettendo in scena il pianto funebre sul suo stesso cadavere (Vajtojca, 2002), pagando una prefica per agire quel malinconico rito del distacco dai propri affetti.
E se in Albania l’artista è una figura rispettata perché quasi magica, in Italia, per contro, Adrian ha dovuto giustificarsi a causa della sua attività creativa. È stato interrogato a lungo dalla polizia, lui albanese, accusato di non essere un buon padre e di usare le proprie figlie per scopi non definiti (foto e video ritenuti osceni). Quella drammatica esperienza è finita però nei musei del mondo, è stata ricostruita in fiction ed è ora una documentazione attiva sui pregiudizi che riguardano gli stranieri.
Quando poi ha dovuto affrontare la precarietà dell’esistenza, Adrian l’ha fatto con Turn on: disoccupati albanesi seduti su una scalinata, ognuno con un generatore in mano. Chiamati a rappresentare se stessi, questi lavoratori usa e getta rendevano fisicamente evidente il loro essere pure «energie a cottimo». L’instabilità come condizione persistente e, in fondo, obbligata per chiunque si avventuri (per costrizione o per utopia) in uno sradicamento è, invece, perfettamente immortalata dai cinque agghiaccianti minuti del video Centro di permanenza temporanea: una fila ordinata di persone sale sulla scaletta che li porterà nella pancia dell’aereo e quindi in viaggio verso un altrove. Solo, che non c’è nessun aereo ad attenderli e tutti rimangono così, sospesi, sconcertati, appesi al nulla di quella struttura sganciata dalla realtà e dalla vita.
La separazione e la’nelito a un ricongiungimento è forse il tema più potente di questo artista. Può accadere di lasciarsi alle spalle lo stato di natura con tutta la brutalità dell’addomesticamento che ne consegue (Inside the Circle, 2011), oppure di vivere sospesi, privi di riferimenti. In The Last Gestures (2009) una sposa lascia la sua casa, i genitori, i fratelli. Negli occhi spesso puntati a terra, in un pudico nascondimento, c’è solo il passato e quel suo catapultarsi fuori dalle mura domestiche della sua infanzia, è uno strappo doloroso. Nonostante il matrimonio imminente e le promesse dell’amore.