L’Egitto del “caso isolato” non cambia la propria politica: nei media nazionali i ministri del governo egiziano si affannano a nascondere sotto il tappeto le migliaia di sparizioni forzate e torture di Stato ma la repressione continua.
Ieri il Nadeem Center, ong che segue le vittime di torture e stila con regolarità rapporti sulle denunce, ha rischiato la chiusura. A riportarlo è una delle fondatrici, Aida Seid al-Dawla: la polizia – insieme a funzionari del Ministero della Salute – si è presentata nella sede, nel centro del Cairo, e ha ordinato la chiusura degli uffici senza mostrare alcun documento che la autorizzasse a procedere. I medici del centro hanno resistito, rifiutando di andarsene. In risposta, una minaccia: i poliziotti informeranno il Ministero degli Interni.
Già a febbraio Il Cairo aveva tentato di fermare il lavoro del Nadeem Center, accusandolo di «condurre attività esterne al suo mandato, come la pubblicazione di rapporti». Perché quei rapporti smentiscono il governo, soffiano sul castello di carte buono per essere mostrato all’estero, ma che gli egiziani sanno benissimo essere un mero paravento.
L’omicidio di Giulio ha svelato le falsità a cui molti quotidiani, anche italiani, hanno finto di credere dal golpe del 2013. Su spinta dell’opinione pubblica, però, oggi Roma dice di volere la verità, una verità che salvaguardi i rapporti politici ed economici con Il Cairo del presidente al-Sisi.
Ieri a trattare il caso Regeni è stato proprio l’ex generale, in un incontro con una delegazione dell’Assemblea Parlamentare della Nato. A margine delle discussioni sulla minaccia terrorismo, che tiene a galla il regime cariota come valido alleato, il presidente ha reso conto degli ultimi sviluppi dell’inchiesta: «Stiamo cercando di rassicurare la parte italiana della piena collaborazione dell’Egitto sulle indagini sull’uccisione di Regeni, continueremo con assoluta trasparenza a chiarirne le cause e manderemo i criminali a processo», ha detto al-Sisi durante la riunione a cui prendeva parte anche il ministro degli Esteri Shoukry. Ahmed Abu Zeid, portavoce del dicastero, però, qualche ora prima in risposta al ministro degli Esteri Gentiloni aveva usato tutt’altro tono: gli avvertimenti di Roma «complicano la situazione in quanto giungono un giorno prima dell’arrivo di un team di investigatori egiziani in Italia».
Si susseguono così prese di posizioni contrastanti, dettate da reali fratture interne al governo egiziano oppure dal tentativo pianificato di gettare fumo negli occhi. A fare da cornice alla confusione emergono poi indiscrezioni difficili da confermare: il Daily News Egypt cita un giornalista legato alla tv di Stato egiziana secondo cui l’Italia avrebbe raccolto «nuove informazioni sul caso» che spingerebbero all’identificazione di un funzionario collegato alla morte di Giulio. Secondo il giornalista, la cui versione non trova ulteriori riscontri, si tratterebbe di Khaled Shalaby, capo dell’unità investigativa di Giza: avrebbe indagato su Regeni prima della sua morte.
Shalaby era già entrato nel caso a metà febbraio quando proprio il Nadeem Center ricordò che nel 2003 era stato condannato ad un anno di carcere dal tribunale penale di Alessandria per aver torturato a morte il prigioniero Shawqy Abdel Aal e aver falsificato rapporti di polizia. La pena fu poi successivamente sospesa e 12 anni dopo è stato promosso.
Voci, indiscrezioni, teorie si accavallano senza trovare sbocchi concreti ma, al contrario, aiutano a generare il caos necessario a eventuali insabbiamenti. Il Cairo sa di dover mettere sul piatto qualche testa per uscire indenne dal ciclone e il timore è che a pagare sarà qualche facile capro espiatorio, interno ai servizi di sicurezza ma sacrificabile.
Come spiega bene Eslam Abol Enein, direttore della nota Arab Organization for Human Rights, non esistono meccanismi che possano trascinare il Cairo di fronte ad un arbitrato internazionale. Di certo il cadavere di Giulio ha scoperchiato il vaso di Pandora, come spiega l’avvocato, esperto in diritti umani, Negad al-Boraie: «È tempo che l’Egitto realizzi che non può manipolare il caso, non può archiviarlo come se la vittima fosse un egiziano».
Qui sta il cuore della vicenda: il silenzio complice che ha garantito piena impunità al regime. E l’Italia vi ha preso parte, non solo legittimandolo a livello governativo, ma anche vendendogli la strumentazione necessaria all’oppressione. Lo scriveva ieri sull’agenzia indipendente egiziana Mada Masr il giornalista Amro Ali: «La questione ha a che fare, in parte, con il numero di compagnie predatrici italiane in Nord Africa, specialmente in Egitto. L’Italia è implicata nella violenza dell’Egitto: dalla compagnia Iveco, che esporta i veicoli blindati della polizia che investono i manifestanti, alla compagnia di armi Fiocchi, che fornisce le pallottole che hanno posto fine alle vite di innumerevoli manifestanti pacifici. Questa è solo una parte della storia delle compagnie italiane che investono nell’economia della violenza egiziana, il vero sistema che ha permesso la morte di Regeni».