Un’infilata di numeri musicali che facevano pensare più a Broadway che a Hollywood, un conduttore troppo friendly per fare cadere con l’efficacia giusta le poche battute affilate concesse a un copione soporifero, nessun vero colpo di scena tra i premi, se si eccettua il fatto che Richard Linklater e il suo Boyhood, sorprendentemente tra i favoriti fino alla vigilia, alla fine non hanno portato a casa quasi niente; persino i presentatori delle statuette erano assortititi male. L’87esima edizione degli Academy Awards si è conclusa domenica sera, dopo una cerimonia infinita di 3 ore e 40 minuti, con il trionfo del cinema indipendente, ma solo se appoggiato dagli studios.
Con uno sprint dell’ultimo minuto, dopo settimane di pronostici che li davano fianco a fianco sulla dirittura d’arrivo, Birdman ha trionfato su Boyhood, vincendo l’Oscar di miglior film, miglior regista, miglior sceneggiatura non originale e quello di miglior fotografia (al grande messicano Emanuel Lubetzki, che l’anno scorso aveva già vinto per Gravity). Particolarmente ingiusta, in questo en plein, sembra l’assenza del protagonista del film di Alejandro Gonzalez Inarritu, Michael Keaton, che sarebbe stata una scelta più logica (insieme a Bradley Cooper in American Sniper) per la statuetta di migliore attore, andata invece a Eddie Redmayne per lo stucchevole, manipolatorio, The Theory of Everything (La teoria del tutto).

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Ma, si sa, agli Oscar, l’allure della malattia incurabile batte qualsiasi valore estetico, e così abbiamo dovuto accontentarci di vedere premiata come migliore attrice la magnifica Julianne Moore, non per Map to the Stars di David Cronenberg (ultimo gioiello in una carriera vissuta spericolatamente) ma posseduta dall’Alzheimer nel quasi televisivo Still Alice. Già anticipato, e dovuto, anche l’Oscar per la miglior attrice non protagonista, a Patricia Arquette, dolce, determinatissima mamma single che sbaglia un uomo dopo l’altro in Boyhood. Nel corso di un ringraziamento emozionato e confuso, Arquette ha invitato il pubblico a battersi in nome «della pulizia ecologica nei paesi in via di sviluppo», di «qualsiasi donna abbia mai dato alla luce un bambino» e «dell’uguaglianza di diritti e di paga per le donne americane» – esortazione questa che ha visto scattare in piedi e applaudire parecchie star in platea, a partire da Meryl Streep (nominata come non protagonista per il ruolo della strega in Into the Woods).

Nel frenetico chiacchiericcio mediatico dei giorni che hanno preceduto la cerimonia, qualcuno (per esempio su Variety) aveva manifestato il timore che la serata avrebbe potuto essere «presa in ostaggio dalla politica». Come prevedibile – ormai da molti anni cautela è la parola d’ordine agli Oscar, hanno bandito persino il kitsch – si trattava di un timore del tutto infondato: ogni controversia degli scorsi mesi è rientrata; American Sniper non ha avuto premi, eccettuato quello di miglior montaggio sonoro, e chi voleva protestare fuori dal Dolby Theatre per l’esclusione della regista di Selma, Ava DuVernay, è stato convinto (pare dalla stessa regista) a rimanere a casa.

Collaudato presentatore di varie cerimonie di Tony e di Emmy, l’attore di Broadway Neil Patrick Harris (Gone Girl) è quasi un outsider rispetto all’industria del cinema, ma gli manca il mordente provocatorio che hanno portato agli Academy Awards conduttori televisivi come Jon Stewart o David Letterman. Harris ha ballato e cantato all’inizio, fatto un paio di passeggiate tra il pubblico e, evocando Michael Keaton in Birdman (ma senza la pancetta flaccida), si è presentato sul palco in mutande bianche. La sua è stata una performance da peso piuma.

Perché le acque si increspassero un poco, politicamente parlando, si è dovuta aspettare la fine della serata quando Sean Penn – con un sorriso da Gatto Silvestro e assaporando la suspense – prima di annunciare che Birdman aveva vinto per miglior film ha detto: «Ma chi gli ha dato la carta verde a questo figlio di puttana?». Pare che la battuta abbia offeso parecchi, su Twitter. In sala però ha dato a Inarritu (che aveva lavorato con Sean Penn in 21 Grams) l’opportunità di spezzare una lancia a favore della riforma dell’immigrazione di Obama (a rischio da qualche giorno, causa un giudice del Texas) «perché agli immigrati messicani di questa generazione siano dati gli stessi diritti e la stessa dignità riservati a quelli che sono venuti prima di loro in questa grande nazione di immigranti».

Più solenne dell’exploit di Penn, e di rigore, ma sentitissima (specialmente dopo la performance della canzone che avrebbe vinto l’Oscar, Glory, dal film Selma), l’esortazione di John Legend e Common a battersi per il diritto di voto in una nazione «in cui ci sono più uomini afroamericani in prigione di quanti ce ne fossero in schiavitù nel 1850». In sala David Oyelowo era in lacrime e, come lui ma molto più inaspettatamente, anche Chris Pine.

Parallelamente al crescendo progressivo di Birdman, gli altri due grandi vincitori della serata sono stati Whiplash di Damien Chazelle (miglior attore non protagonista a J.K. Simmons, miglior montaggio e miglior mixaggio sonoro) e The Grand Budapest Hotel, di Wes Anderson, che non ha vinto – come ci si aspettava invece – il premio di miglior sceneggiatura non originale, ma ha portato a casa Oscar per la migliore colonna sonora (Alexandre Desplat, che era nominato anche per Imitation Game), per i miglior costumi (Milena Canonero), la miglior scenografia (Adam Stockhausen e Anna Pinnock) e per il make up (Frances Hannon e Mark Couilier).
Data quasi per scontata, la vittoria di Citizienfour nella categoria del documentario ha portato in mondovisione il problema della sorveglianza segreta dei governi e sul palco la regista/giornalista Laura Poitras e il columnist Glenn Greenwald, che sembrava addirittura intimidito. Contro tutti i pronostici, che davano per vincente Train Your Dragon 2, la Disney si è assicurata non uno ma due Oscar per l’animazione: per il molto lasseteriano Big Hero 6 e per il bel corto che lo accompagna, Feast.