La riconquista di poter immaginare il futuro è una condizione necessaria seppur non sufficiente per trasformare la realtà. È la prima postura teorica del volume Quattro modelli di futuro (Treccani, pp. 141, euro 18, traduzione di Chiara Veltri) scritto da Peter Frase, sociologo «socialista» americano, nonché redattore della rivista Jacobin e giornalista freelance per «Al Jazeera». Il secondo «movimento» proposto è l’analisi dei modelli di futuro egemoni nel capitalismo, per poi prendere congedo dal presente riproponendo la necessità di una attitudine utopista che sfugga, tuttavia, da quell’epilogo ubriaco che Marx ha efficacemente riassunto con l’espressione «le osterie dell’avvenire», quando cioè stigmatizzava le fumosità del socialismo ottocentesco che si dilettava solo nel definire su carta «città future» e falansteri immaginari. Il regno della libertà, sosteneva il Moro di Treviri, non poteva essere stabilito a tavolino da qualcuno che rimaneva indifferente a quanto accadeva fuori le protettive mura domestiche. Alle chiassose «osterie dell’avvenire» preferiva il conflitto di classe e la messa a fuoco delle tendenze già presenti nel capitalismo dalle quali si potevano trarre materiali sul mondo in preparazione.

IL DIVENIRE DELLE SOCIETÀ e del movimento che vuole abolire lo stato di cose presente impediscono, questo il nucleo centrale della filosofia della storia marxiana, l’arte della profezia. Non poteva certo immaginare Marx che decenni dopo la sua morte ci sarebbero stati filosofi ed esponenti politici che ponevano il futuro come discriminante tra sinistra e destra, tra proletari e borghesi. Il futuro era cioè prerogativa della classe operaia, dei comunisti, perché la borghesia aveva da tempo perso la spinta propulsiva iniziale, diventando la forza della conservazione. Era compito della critica dell’economia politica e dei comunisti fare dunque proprio il «principio speranza» che muoveva l’utopia concreta del regno della libertà (Ernst Bloch).
Intorno al tema, la riflessione di Peter Frase si inserisce in una prassi teorica articolata e fortemente differenziata al suo interno che parte dal presupposto che la forza egemonica del neoliberismo capitalista sta nel presentare più idee di futuro: la freccia del tempo conduce inevitabilmente a un futuro di pace, benessere e armonia. Questo lo dicono gli anarco-capitalisti, così come le teste d’uovo cosmopolite e tecnocratiche della globalizzazione. Basta leggere un altro libro anch’esso dedicato al futuro – Dove inizia il futuro di Philip Larrey (Mondadori, pp. 320, euro 20) – un vero e proprio breviario dell’ideologia neoliberista della Silicon Valley, dove manager, ingegneri, designer, architetti delineano il futuro a misura di impresa e di uno stile di vita edonisticamente neoliberista. Anche chi sostiene il ripiegamento populista o innocuamente riformista su una dimensione locale, come può essere lo Stato nazione sostiene sempre che il futuro sarà sempre migliore del presente. Non c’è scritto populista – la differenza tra quelli di destra e quelli di sinistra almeno in Europa non è pervenuta – che non parli del futuro da costruire. Posizioni e tesi che rimuovono ogni dubbio e sottolineatura su quella idea che vede nel progresso come un processo lineare tendente a una società migliore di quella precedente.

IL FUTURO che viene spacciato come l’orizzonte della buona vita sembra nascere in quelle «osterie dell’avvenire», dove però gli avventori non ascoltano i vaticini di qualche socialista utopico, ma popolate da manager, opinion makers delle verità amate dai potenti; da risentiti e outsider per gioco orfani (e orfane) del quarto stato e da esponenti politici in procinto di imboccare una sliding door che li faccia entrare in alcune impresa globale.
L’egemonia neoliberista, questa la morale della discussione pubblica mainstream, si è appropriata del futuro. Peter Frase propone però di espropriare gli espropriatori. Una proposta convincente, non c’è che dire; pensare il futuro è infatti preferibile alla misera e grigia fine della storia spacciata come verità dal potere costituito. Per espropriare gli espropriatori va però scongiurato un pericolo: il progresso rivendicato come evoluzione lineare del presente.
Questo libro di Frase ha dalla sua un pregio che lo rende un vademecum e al tempo stesso una mappa dell’ideologia dominante: scandaglia cioè i modelli di futuro che si confrontano da anni sulla scena pubblica. Fanno così la comparsa analisi critiche di romanzi di fantascienza, film di grande successo, report di istituzioni internazionali, filosofie sociali che hanno costellato tanto la rappresentazione dello stato del mondo che la produzione di immaginario collettivo.

LA FANTASCIENZA SOCIALE fa la parte del leone. C’è ovviamente il cyberpunk di William Gibson, il «futurismo» di Bruce Sterling, la fantasy radicale e politicamente irriducibile di Ursula Le Guin, le tecnologie della sorveglianza nella Bay Area di Cory Doctorow, un ideale sfondo in cui collocare blockbuster come la saga di Guerre stellari, il ciclo di Matrix, il postatomico Mad Max che, indipendentemente dalle intenzioni di scrittori e registi, hanno alimentato distopie e visioni del futuro sull’autoritarismo di Stati ridotti a organi amministrativi di reti di imprese globali, o che hanno narrato l’espulsione di una crescente parte della popolazione, esclusa così da diritti sociali, civili e politici all’interno di vite precarie sempre a rischio di sopravvivenza.
Di fronte a questo apocalittico panorama, che ha nutrito più di una generazione di uomini e donne, l’ideologia dominante non smentisce tale percezione, timori e prospettive, ma ha fornito una sorta di guida alla sopravvivenza. Uomini e donne ridotti a individui proprietari o imprenditori di se stessi e per questo valorizzare, in una perenne auto-promozione di sé, il proprio capitale sociale. La competitività, e il suo drogato supporto, la meritocrazia, come valore universale sono queste le stelle polari che conducono a un futuro di benessere e prosperità, che ovviamente non è per tutti, ma solo per chi esce vincente dalla selezione dei migliori.
È questo il cancerogeno sole dell’avvenire che il neoliberismo ha prospettato, cancellando ogni possibilità di immaginarne un altro. Su questo fattore – la possibilità cioè di sovvertire il pensiero dominante a partire dalla cultura pop – Frase sorvola, preferendo alla materia vivente dell’immaginario collettivo, i dati sul lavoro ridotto a risorsa scarsa, sull’automazione non solo delle operazioni manuali dei processi produttivi, ma anche di quelle «cognitive», «intellettuali».

ORMAI non c’è think thank che si rispetti che non di cimenti nella spiegazione della scomparsa del lavoro come previsto da Banca mondiale, organizzazioni mondiale del lavoro, Onu, mentre tra gli Stati nazionali gli Stati Uniti, Inghilterra, Germania e Francia sono diventate le teste di serie delle ricerche che annunciano disoccupazione di massa, crescente povertà, scandalose disuguaglianze sociali senza però che nulla cambi nell’ordinato mondo dell’economia e della politica. Insomma, il futuro è qui uno spartito dove cambiano solo i tempi di esecuzione e il ritmo che accompagneranno l’irrilevanza di gran parte della popolazione ai fini della produzione della ricchezza. Anche in questo caso il futuro ha le sembianze di una distopia terrificante, dove solo una esigua minoranza della popolazione avrà redditi e stili di vita dignitosi, mentre gli altri umani sono walking dead alla ricerca di briciole di reddito.
Il mondo che verrà non può certo essere analizzato secondo le griglie del vero e del falso. Gran parte delle situazioni narrate, filmate o elaborate hanno infatti molti punti di forza. Individuano cioè tendenze in atto, ma che hanno un fondamento nei rapporti sociali dominanti. Naturalizzarle significa affermare la necessità di un eterno presente. Immaginare un mondo dove le disuguaglianze sociali e politiche sono l’ostacolo da rimuovere, significa infatti immaginare meccanismi di redistribuzione della ricchezza, politiche attive contro la povertà e la disoccupazione (dalla riduzione dell’orario di lavoro al reddito di cittadinanza); ma anche proporre strumenti di partecipazione politica (il mix tra democrazia diretta e rappresentativa ventilata da filosofi come Jurgen Habermas o Chantal Mouffe). Niente di sovversivo, cioè. In fondo si tratta di misure riformiste.
Di ciò l’autore ne è consapevole, ma oltre la fotografia dell’esistente non si avventura. Implicito è la convinzione che in questo la situazione il più timido riformismo assume una tono e valenza «rivoluzionaria».
SE IL SECONDO PASSAGGIO è compiuto – l’analisi dei modelli di futuro – rimane da realizzare quello più difficile: pensare un futuro diverso dal presente e da quelli prospettati da futurologi come Bruce Sterling che alla fantascienza sociale dei suoi esordi di scrittore ormai preferiscono un algido determinismo tecnologico molto amato nella Silicon Valley e nei fighetti e ecompatibili «Starbucks dell’avvenire», che hanno preso il posto nella produzione dell’opinione pubblica delle fumose osterie non amate da Marx.
Nelle «osterie dell’avvenire» si possono però fare incontri stimolanti, discutere di un tema ignorato, ma tuttavia rilevante. E se ne può uscire con la consapevolezza che il futuro è davvero da riconquistare come immaginazione, come possibilità di fare forma e consistenza a una utopia concreta. Perché vivere in un perenne interregno – la figura gramsciana variamente evocata in questo libro – significa condannare se stessi e il mondo a rinunciare a costruire una società di liberi e eguali.