Tra il maggio 2019 e l’agosto 2021 in India sono stati documentati 256 episodi di violenza contro giornalisti e giornaliste al lavoro sul campo. Si va da intimidazioni a pestaggi, fino all’incarcerazione preventiva con l’accusa di «incitare l’odio intercomunitario». Questi i numeri emersi dal report compilato da Watch The State, gruppo di ricerca promosso dall’organizzazione giornalistica The Polis Project.
«Nel 2019 ci avevano contattato degli studenti che stavano protestando contro il CAA (Citizen Amendment Act, la legge sulla cittadinanza indiana accusata di discriminare i fedeli musulmani, ndr). Ci dicevano «noi abbiamo tutto questo materiale che è pericoloso conservare e che non sappiamo perché è importante, ma sappiamo che è importante», ci spiega Francesca Recchia, tra le fondatrici di The Polis Project, creative director ed editor dell’organizzazione, raggiunta al telefono da il manifesto.
«Partendo dalla nostra missione, che è lavorare al fianco di comunità di resistenza nel mondo, abbiamo pensato che questa fosse un’occasione per approfondire una delle questioni che ci stanno più a cuore: osservare come si comporta chi è al potere, quali sono gli abusi, come funziona la violenza di stato. Subito ci siamo resi conto che la documentazione degli abusi commessi dallo Stato e delle violenze da esso sanzionate e avallate si protraeva nel tempo. È diventata la documentazione degli abusi durante la pandemia e il lockdown, dei pogrom di Delhi del febbraio 2020… È diventata una documentazione costante del presente».

Episodi che lasciano intravedere un pattern, uno schema.
La violenza non è episodica, ma sistematica. Si tratta di un processo deliberato, studiato. È il risultato di un’intenzione assolutamente chiara dello Stato di usare e abusare di tutti i poteri a sua disposizione per mantenere uno status quo sempre più indirizzato alla costruzione di uno stato etno-nazionalista di stampo ultrahindu.

Come si manifesta questa violenza di stato contro i giornalisti in India?
Succedono diverse cose. Possiamo partire dal recente episodio della comunità musulmana in Tripura (stato nel nord-est del Paese, ndr). Per giorni diversi esponenti del Bharatiya Janata Party (Bjp, il partito nazionalista hindu del premier Modi, ndr) e di organizzazioni ultrahindu hanno attaccato sistematicamente la comunità musulmana. Stiamo parlando di appelli al genocidio: «massacriamo i musulmani», incitamento all’odio che è proibito dalla Costituzione. Una campagna orchestrata in risposta ad attacchi contro la comunità hindu nel vicino Bangladesh. E la polizia non è intervenuta, non ha fatto niente. La negligenza è una forma di violenza, non intervenire equivale a essere complici. Gruppi di ultrahindu si sono organizzati e hanno assaltato una moschea, negozi e case della comunità musulmana in Tripura. Quando la stampa è arrivata per raccontare i pogrom, la polizia ha denunciato alcuni giornalisti per istigazione alla violenza e diffusione di falsità; inoltre, hanno stilato una lista di 102 account Twitter, chiedendo una sospensione punitiva per «attività anti-nazionali». Account perlopiù di musulmani, che denunciavano l’inadempienza della polizia e delle varie agenzie di sicurezza durante le violenze.

Secondo il World Press Freedom Index 2021 di Reporters Without Borders, l’India è al 142esimo posto su 180 in termini di libertà di stampa. C’è un problema sistemico dell’informazione nel Paese?
In India il confine tra informazione e propaganda sta sfumando sempre di più. Chi riporta la narrazione ufficiale governativa continua a lavorare senza problemi, però ci dobbiamo domandare se si può parlare ancora di informazione… La penetrazione dello Stato nel controllo dell’immagine del Paese, lo slogan “Incredible India”, è ormai così pervasiva da arrivare un po’ ovunque. L’india è uno dei Paesi con più giornali e televisioni, e c’è storicamente una diversità di voci che l’ha resa molto dinamica anche in termini di dibattito interno. Questo si sta assolutamente appiattendo.

Nel vostro report si nota un altro filo rosso che collega l’ultrainduismo alla pericolosità di svolgere l’attività giornalistica: le violenze contro chi racconta i fatti sul campo avvengono con più frequenza negli stati governati dal Bjp.
Sì, questo è uno dei principali risultati della ricerca. La maggior parte delle violenze commesse contro i giornalisti, fisiche e legali, sono da parte della polizia. In particolare in Uttar Pradesh, in Kashmir e nello stato di Delhi. Quest’ultimo dato è estremamente interessante, perché a Delhi la polizia risponde direttamente al Ministero dell’Interno: non c’è più nemmeno la scusa del governante occasionale fuori di testa. Se il Ministro dell’Interno avalla certi comportamenti, vuol dire che la questione è più profonda di quanto non si voglia far apparire. Lo abbiamo visto durante i pogrom di Delhi del 2020, che noi chiamiamo appunto pogrom, non «riots»: il pogrom è una comunità che attacca l’altra con lo Stato che sta a guardare, che è quello che è successo a Delhi. Non solo gli Stati governati dal Bjp sono sistematicamente più pericolosi per i giornalisti, ma il potere giudiziario, a livello nazionale, è assolutamente complice in questa violenza.

In che modo?
Molti giornalisti sono in regime di detenzione in attesa di processo, senza accuse specifiche. Molti altri sono in carcere preventivo ai sensi di leggi come la Uapa (Unlawful Activities Prevenjtion Act), che in teoria è concepita per uno stato di emergenza.

È una legge di epoca coloniale che permette al governo di arrestare chiunque sia sospettato di condurre azioni che minano l’integrità dello Stato e la sicurezza nazionale, senza produrre alcuna prova a giustificazione della detenzione preventiva. Negli ultimi sette anni, secondo «FactChecker.in», ai sensi della Uapa in India sono state arrestate 10.552 persone, di cui solo 253 condannate.
Il fatto che una legge speciale come questa venga usata in maniera sistematica è un corto circuito legale. Il caso del giornalista Siddique Kappan è emblematico: era andato in Uttar Pradesh per raccontare di una donna dalit di 19 anni violentata e uccisa da un gruppo di uomini di casta alta. È stato arrestato ai sensi della Uapa per «incitamento all’odio» ed è in carcere dall’ottobre del 2020, in attesa di processo. Nel frattempo la madre di Kappan è morta; i giudici non hanno concesso la libertà su cauzione nemmeno per motivi caritatevoli.

Sono storie che raccontano un’India molto diversa da quella che siamo abituati a immaginare.
Il dato molto preoccupante è che tutti noi, la comunità internazionale, in qualche modo è ferma a guardare mentre la democrazia indiana si sta a poco a poco sgretolando. E adesso, personalmente, ritengo siamo ben oltre il punto di non ritorno. C’è una cosa che andrebbe studiata: la capacità di comunicazione del governo Modi. Il potere dell’esotico che l’India esercita sul mondo, ovviamente al fianco del potere d’acquisto, dalle armi in giù, riesce a distrarre da quelle che sono le questioni strutturali di un Paese al collasso. Perché è di fatto un Paese sempre più vicino a una dittatura etno-nazionalista di stampo ultrahindu.