L’economia indiana versa in una situazione critica, con crescita ai minimi e la rupia mai così svalutata. Segnali che in occidente vengono interpretati come un imminente crollo dei Brics, la famigerata «bolla» dei Paesi in via di sviluppo che ora, fiaccata dalla crisi economica, sarebbe sul punto di esplodere.
Ma il caso dell’India, analizzato nel dettaglio, racconta invece di un’emergenza annunciata, dove il crollo del potere d’acquisto e la dipendenza dalle importazioni che sta trascinando a picco Nuova Delhi sono figlie di antichi errori e abbagli nella programmazione della crescita.
Questa la tesi di Elisabetta Basile, professoressa di economia applicata alla Sapienza di Roma ed esperta di economia informale indiana, tema centrale della sua ultima pubblicazione accademica Capitalist Development in India’s Informal Economy (Routledge, giugno 2013).

Professoressa Basile, la scorsa settimana la rupia ha toccato il minimo storico contro la valuta statunitense, 65 rupie per un dollaro. Il mercato ha reagito con una sfiducia diffusa, interpretando il crollo come simbolo di un’economia in bilico. Cosa sta succedendo?

Credo che i problemi che l’India sta attraversando, e di cui il declino della rupia è solo l’epifenomeno, siano tutti collegati al modello di sviluppo che ha sperimentato. A partire dal 1947 in poi, non solo dal 1991 o dal 1980, come molti osservatori ritengono. Per conseguenza delle scelte fatte dai tre premier della dinastia Gandhi – Nehru, Indira e Rajeev – e anche da Singh a partire dal 1991 (anno dell’entrata in vigore delle riforme economiche, ndr), l’economia indiana poggia su piedi di argilla. Non avevo previsto la crisi della rupia, anche se le dinamiche monetarie riflettono sempre le dinamiche reali, ma ero certa che col rallentamento della crescita qualcosa sarebbe successo.

Lo scorso anno l’India si è fermata sotto i cinque punti percentuali di crescita, disattendendo le stime interne che auspicavano almeno un 7%. Una battuta d’arresto che ha colpito l’immagine del miracolo economico indiano e che ha mostrato tutti i limiti del secondo gigante d’Asia.

L’India del boom degli anni Novanta ha continuato a poggiarsi su squilibri di base risultato delle scelte di politica economica e sociale fatte a partire da Nehru: lo sviluppo industriale a discapito della crescita delle campagne, la gestione carente dei conflitti comunitari e castali, il problema dell’alfabetizzazione, molto importante anche se spesso sottovalutato. Il conflitto maggiore, a quasi 25 anni dalle riforme economiche, rimane quello fra città e campagna, che oggi si intreccia con la dualità tra economia formale e informale, che contrappone i pochi lavoratori protetti e regolarizzati con la massa di manodopera sfruttata che non gode di alcun diritto.

La ricetta per uscire dal tunnel, secondo diversi analisti, è aprire il mercato a competitor internazionali, introducendo politiche che attraggano gli investimenti diretti all’estero: far entrare capitali stranieri per ridare impulso alla crescita.

L’India è un paese ricco e in via teorica ha gli strumenti per affrontare la crisi. Questi strumenti però non sono l’apertura dell’economia, ma le politiche sociali e di ridistribuzione della ricchezza e la lotta alla corruzione. Il forte impatto dei conflitti sociali – religiosi, etnici, di genere, di casta – sulla crisi attuale è mostrato dalle crescenti importazioni di oro; un fenomeno che si spiega solo considerando i comportamenti della grande classe media, preoccupata più di assicurarsi il proprio status quo che di mettere le basi per una crescita inclusiva.

Anche in India l’opposizione lamenta l’immobilismo del governo del Congress, accusato di dare risposte troppo deboli e temporanee come l’acquisto di bond nazionali da parte della Reserve Bank of India al posto di intraprendere riforme più profonde che vadano, ad esempio, a colpire la corruzione.

Il consenso per la lotta alla corruzione e per le politiche sociali mirate alla riduzione degli squilibri non c’è. Questo è un problema prevalentemente politico che però ha forti ricadute economiche: la corruzione è il lubrificante di importanti segmenti dell’economia indiana, soprattutto del grosso segmento informale – oltre il 94 per cento delle forze di lavoro – che senza corruzione vedrebbe una forte contrazione del profitto. Ma le resistenze degli imprenditori, che dallo sfruttamento di lavoratori e ambiente traggono profitti gonfiati, e la mancanza di ampio consenso tra le forze politiche stanno rimandando una serie di misure urgenti, anche a causa delle prossime elezioni nazionali del 2014: in questo momento nessuno ha interesse a promuovere misure impopolari.

Quale strada potrebbe intraprendere l’India per invertire la tendenza e tornare ai livelli di crescita del boom?

Mi trovo d’accordo con la posizione di Amartya Sen, economista liberale che recentemente ha ribadito la necessità di puntare sulla redistribuzione della ricchezza e la riduzione della diseguaglianza. La creazione delle infrastrutture, nelle zone rurali ma anche in quelle urbane, è il primo passo. Trasporti e soprattutto potenziare la rete elettrica nazionale: oggi in India solo il 12% delle imprese nelle aree rurali usa l’energia elettrica nella produzione. Occorre investire nelle scuole e assicurare il rispetto delle indicazioni dell’Ilo sul lavoro dignitoso, tutelando bambini, donne e altri ceti vulnerabili. In altri termini, il governo indiano dovrebbe creare le strutture che consentono l’empowerment dei lavoratori. L’evidenza empirica ci suggerisce che, con un maggiore grado di istruzione, i lavoratori subalterni avrebbero maggiori possibilità di resistere alle ideologie a base castale, sulle quali fanno leva piccoli e medi imprenditori appoggiati da partiti e organizzazioni politiche. Riassumendo: lotta alla corruzione e creazione di infrastrutture sono l’unica possibilità per l’India di avere un inclusive growth, un obiettivo che il governo propone nell’ultimo piano quinquennale (2012-2017).