Marina Maurizio, madre di Tomaso Bruno, aveva già comprato un biglietto aereo per tornare in India, in attesa della sentenza della Corte suprema che – forse – dopo cinque anni avrebbe ridato la libertà a suo figlio e a Elisabetta Boncompagni, condannati all’ergastolo in primo e secondo grado per l’omicidio del loro amico Francesco Montis. Quel biglietto è finito in un cassetto nella casa di Albenga, dove risiede la famiglia Bruno: non ce n’è più bisogno.
Nella mattinata di ieri, a sorpresa, la massima Corte indiana ha raggiunto un verdetto atteso almeno per la seconda metà di febbraio: le sentenze precedenti vanno «messe da parte», Tomaso ed Elisabetta vanno rimessi in libertà «con effetto immediato».

Le motivazioni della sentenza non sono ancora chiare. Probabilmente, analizzando le carte che per l’accusa indiana inchiodavano i due all’omicidio preterintenzionale di Francesco – trovato morto la mattina del 4 febbraio del 2011 nella stanza della guesthouse di Varanasi (Uttar Pradesh) dove risiedevano i tre amici – avanzando come movente un assurdo «ménage à trois» finito male che Tomaso, 32 anni, ed Elisabetta, 42 anni, hanno sempre negato, i giudici della Corte suprema hanno constatato l’irragionevolezza delle accuse. I tre facevano uso di droghe e Francesco, secondo quanto rivelato dai propri famigliari, soffriva di problemi di salute da tempo.

Quasi cinque anni di detenzione presso la District Jail di Varanasi finiscono con una sentenza definitiva della Corte suprema, pronta a criticare e correggere un sistema giudiziario indiano controverso, pieno di contraddizioni e manifestazioni spesso incomprensibili, ma nel quale la famiglia Bruno ha sempre riposto fiducia. «È una grande gioia» ha commentato a caldo Marina, accogliendo l’annullamento dell’ergastolo come la «dimostrazione del funzionamento del sistema giudiziario indiano». L’ambasciatore d’Italia in India Daniele Mancini – agli sgoccioli del suo mandato a New Delhi, in scadenza i primi di marzo – era presente nell’aula del tribunale e ha immediatamente chiamato il direttore del carcere di Varanasi per avvertire i due detenuti italiani della fine imminente del loro calvario. Convocati nell’ufficio del direttore, Tomaso ed Elisabetta hanno commentato increduli «ma è uno scherzo?», prima di scoppiare a piangere.
1811 giorni in carcere dormendo in caserme da 130 persone l’una stesi su stuoie di paglia, proibito fare o ricevere telefonate, centinaia di libri letti, centinaia di visite ricevute nei giardini dell’istituto penitenziario da amici, conoscenti e sconosciuti, tutti accompagnati da Marina. Mentre l’opinione pubblica e i media mainstream si erano dimenticati di Tomaso ed Elisabetta, è stata la madre di Tomaso a tenere alta l’attenzione per chi voleva ascoltare la storia dell’ingiustizia subìta in silenzio, con dignità rara di questi tempi, dai due ragazzi e dalle rispettive famiglie. Tanto che anche Romano e Leda Boncompagni, genitori di Elisabetta, dicendosi «felici, quasi senza parole» e mettendo in guardia i futuri viaggiatori sul fatto che l’India «non è il paradiso che sembra», hanno sottolineato come alla fine questa sia stata soprattutto una vittoria «di Marina» che «si è battuta senza risparmiarsi». Ora si attendono i tempi tecnici dell’«immediatezza» con caratteristiche indiane. Trasmesso l’esito della sentenza alle autorità competenti, il direttore del carcere di Varanasi ha 24 ore per rimettere in libertà Tomaso ed Elisabetta. A quel punto, ha spiegato Marina a il manifesto, i due verranno trasferiti in ambasciata a New Delhi e da lì attenderanno la consegna dei loro passaporti. «L’ambasciatore Mancini mi ha detto di aspettare a venire in India. Se non ci sono intoppi, un giorno o due e ce li rimanda a casa».