l 23 giugno scorso Junaid Khan, 15 anni, assieme a un gruppo di amici stava tornando in treno al suo villaggio nello stato dell’Haryana, confinante con New Delhi.

Aveva passato la giornata in città e, come da tradizione, si era comprato vestiti nuovi di zecca da indossare tre giorni dopo per Eid-al-Fitr, che per la comunità musulmana segna la fine del mese sacro del ramadan. Secondo le ricostruzioni della stampa indiana, durante il viaggio di ritorno Khan e i suoi amici vengono presi di mira da un gruppo di hindu, che iniziano a sfotterli per i loro cappelletti e le loro barbe da musulmani, da «mangia-mucche».

DALLE PAROLE SI PASSA AI FATTI e Khan, per il fatto di essere musulmano in India – come lo è almeno il 15 per cento della popolazione – viene accoltellato e lasciato morire dissanguato sulla banchina di una stazione nei pressi di Faridabad, cittadina vicinissima a New Delhi.

KHAN È SOLO L’ULTIMA VITTIMA di una interminabile sequela di aggressioni, violenze e linciaggi che negli ultimi tre anni si è allargata a macchia d’olio in tutto il territorio indiano, sobillata dalla retorica ultrahindu secondo cui pur di difendere la sacralità della mucca ogni mezzo è lecito e non c’è legge che tenga. La giustizia, tolta dalle mani della polizia, viene amministrata dalla folla, spesso capeggiata da milizie ultrahindu chiamate gau-raksha, protettori della mucca, gruppi di vigilantes che pattugliano le strade dell’India rurale a caccia di «mangia-mucche» musulmani o dalit, fuoricasta. Padroni della terra di nessuno lontana dai centri urbanizzati, i gau-rakshak fermano chiunque sia sospettato di aver ucciso o voler uccidere i bovini, chiedono documenti, si sostituiscono alle forze dell’ordine e puniscono i trasgressori senza l’impedimento delle indagini. Spesso, riprendono pestaggi e umiliazioni con lo smartphone e mettono tutto online.

SECONDO I DATI analizzati da IndiaSpend, tra il 2000 e il 2017 ci sono stati più di sessanta «incidenti» di questo tipo, per un dato parziale di 28 morti; l’86 per cento, di fede musulmana.
Considerando che la statistica si basa solo sulle notizie raccolte dai media in lingua inglese, è lecito pensare che il computo delle vittime dell’intolleranza ultrahindu sia arrotondato per difetto. Più che il macabro calcolo aritmetico, ciò che scuote una parte dell’opinione pubblica indiana è il generale senso di impunità di cui godono questi linciaggi, che non trovano una chiara opposizione né formale né sostanziale nell’attuale governo del Bharatiya Janata Party (Bjp), partito della destra conservatrice hindu.

DOPO LA MORTE DEL GIOVANE Khan, a una manciata di giorni dalla festività di Eid, la stampa nazionale ha iniziato a parlare dell’India come di un «lynchistan» in divenire, un paese dove l’inazione delle autorità sta permettendo l’instaurarsi di un clima di vero terrore, diffuso in particolare nell’India rurale.
Mercoledì 28 giugno, dopo una campagna online di qualche giorno, in almeno dieci città indiane migliaia di cittadini sono scesi in strada – senza bandiere di partito – rispondendo alla chiamata dell’hashtag #notinmyname, manifestando un dissenso morale, più che politico, circa la deriva del paese. A dire la verità, secondo gli ordini di grandezza indiani, non siamo di fronte alla classica «marea» di manifestanti, ma tanto è bastato perché i media nazionali e internazionali riprendessero l’evento e ne amplificassero la portata, dando per la prima volta in questi anni una dimensione davvero nazionale a una piaga sistematicamente derubricata dal governo come «episodio spiacevole».

PRATAP BHANU METHA, una delle menti e penne più fini dell’India contemporanea, in un lungo editoriale pubblicato su Indian Express il 27 giugno parlava dei «silenzi vigliacchi e gesti astratti» del premier Narendra Modi, colpevole di non aver alzato mai né un dito né la voce mentre il fenomeno dei linciaggi prendeva piede, «incoraggiando la barbarie».
Detto fatto: nella giornata di ieri, durante un evento pubblico in Gujarat, Modi ha sfoderato la carta Mahatma Gandhi, dicendo che ammazzare nel nome del manzo è «inaccettabile», il padre della patria non sarebbe stato d’accordo, l’India è la «terra della non-violenza» e la violenza non è mai la soluzione.