India, immagini spirituali gradite all’Occidente
India Dal mito di Gandhi in poi, la rimozione della violenza nella storia dell’India si è affiancata all’estasi per la crescita «biofinanziaria» del subcontinente
India Dal mito di Gandhi in poi, la rimozione della violenza nella storia dell’India si è affiancata all’estasi per la crescita «biofinanziaria» del subcontinente
Architettare e perseguire una strategia di soft power significa decidere a tavolino quale immagine del proprio paese proiettare a livello internazionale. Esercizio di fantasia applicata alla propaganda, fa leva su caratteristiche percepite come positive, affabili e non minacciose. Il tutto per raggiungere un obiettivo politico altrimenti non afferrabile, se non con la forza dei muscoli o del denaro.
Se per convenzione accettiamo questo aggiornamento approssimativo del concetto di soft power nell’era della comunicazione, nel caso indiano ci troviamo di fronte a un portento dello storytelling. Un fenomeno dello spindoctorismo che sin dalla propria nascita repubblicana – esiste un’indipendenza più «soft» di quella raggiunta dalla non-violenza gandhiana? – ha potuto godere di una reputazione tanto eccellente e diffusa da ridurre al minimo gli sforzi di autonarrazione.
L’India, parte del nostro immaginario collettivo da oltre mezzo secolo, in mancanza di un chiaro autoritarismo da scontare, viene tramandata come gigante buono e pacifico, tollerante e spirituale. In fase di emersione dal brodo primordiale dei paesi in via di sviluppo, sì, ma con umiltà, senza la tracotanza revanchista della Cina e soprattutto, grazie a un’influenza coloniale che a noi occidentali tutto sommato non dispiace, già dotata di affinità elettive che ne fanno un partner naturale nella lotta all’espansionismo cinese.
QUESTO L’IDENTIKIT INDIANO spacciato da gran parte degli analisti che, figli di Cindia, esercitano il proprio interesse verso l’India secondo un principio di opposizione alla Cina, senza riuscire a parlare dell’una in assenza dell’altra. Si tratta di una tendenza ereditata dal secolo scorso, quando i due grandi «malati d’Asia» iniziavano percorsi di crescita e maturità diametralmente opposti.
O almeno, descritti come tali: dittatura comunista l’una, democrazia ex socialista l’altra; spregio per la libertà religiosa in una, tutela del pluralismo confessionale nell’altra; repressione armata delle minoranze in una, confronto pacifico e non violento nell’altra e così via.
Per certi versi, il più grande esercizio di soft power indiano, fino a oggi, è stato sovrapporre la mitica figura del Mahatma Gandhi – archetipo del «potere dolce», nella versione divinizzata contemporanea raramente scalfita da analisi anche solo vagamente critiche – alla complessità di traiettorie storiche che poco hanno da invidiare alle vicissitudini più sanguinose del maoismo. Mi riferisco, ad esempio, agli orrori della Partizione nel 1947 (due milioni di morti), all’Emergenza del 1976-77 (un anno di regime dittatoriale sotto Indira Gandhi con centinaia di migliaia di arresti preventivi, torture e otto milioni di sterilizzazioni forzate), all’operazione Blue Star del 1984 (la repressione del movimento separatista sikh in Punjab ordinata da Indira Gandhi, con migliaia di morti civili), ai pogrom anti sikh dello stesso anno (la risposta governativa all’assassinio di Indira Gandhi; secondo fonti indipendenti, 8mila morti tra l’1 e il 4 novembre, di cui 3mila nella sola capitale New Delhi), fino ai numerosi pogrom anti musulmani occorsi tra gli anni Novanta e oggi.
Dettagli che raramente vengono affiancati alla descrizione sbrigativa dell’India come «più grande democrazia del mondo» e che, qualora sollevati, destano indignazione da parte di interlocutori italiani più realisti del re: «Questa non è la mia India», si dice, avanzando il primato di un paese immaginato su una realtà che noi, a differenza degli indiani, abbiamo il lusso di poter ignorare.
ALLA RIMOZIONE DELLA VIOLENZA si va affiancando da due decenni l’estasi per l’aritmetica biofinanziaria del subcontinente. Sciorinando dati, cifre e proiezioni prese un po’ a casaccio si sostiene l’imminenza della rinascita indiana prima e, come conseguenza, l’evoluzione delle trame politiche subcontinentali. Anche qui, lo scarto tra la realtà sul campo indicata dagli osservatori indiani e quella dell’iperuranio finanziario descritto da sempre nuovi «esperti» di India non potrebbe essere più abissale.
Recentemente, durante un seminario promosso dalla Commissione Esteri della Camera dei Deputati italiana dal titolo «L’India nella nuova governance globale: quali scenari di sviluppo nei rapporti tra Italia e India», Emanuela Scridel – economista bocconiana, esperta di Ue e anche di India – ha tratteggiato in tinte rosee il quadro dell’attuale splendore economico indiano; ancor più di quanto avesse fatto, pochi minuti prima, la delegata dell’ambasciata indiana a Roma Gloria Gangte.
Partendo dai dati pirotecnici degli ultimi anni – 34 miliardi di dollari di investimenti in India nel 2014, 1,3 miliardi di persone di cui 300 milioni sotto i 15 anni, 7,5 per cento di crescita media del Pil negli ultimi quattro anni, crescita del 50 per cento nei settori dell’Information Technology, una classe media di consumatori da 300 milioni di persone – Scridel finisce per sposare la tesi secondo cui in India «sono le dinamiche economiche che stanno determinando quelle politiche».
Postulato che permette all’analista di esaltare l’ulteriore «spinta decisiva alla crescita e al riposizionamento del paese nel contesto internazionale data dall’ultimo primo ministro eletto Narendra Modi» quando «per la prima volta il Partito del Congresso non ha vinto le elezioni».
Secondo Scridel, Modi di fatto è «espressione di una middle business class di quasi trecento milioni di persone che credono nel miracolo economico che di fatto ha compiuto nel suo stato di elezione, che è il Gujarat. È figlio di una famiglia di casta ganji (sic!) quindi molto bassa, sebbene le caste ufficialmente non esistano più in India, Modi forse è il simbolo di un induismo che cambia insieme alla società di riferimento e questo a mio avviso non è poco, determina anche una ricollocazione in qualche modo del pensiero e della cultura nel contesto indiano oltre che sull’esterno».
A PARTE DUE GRAVI ERRORI fattuali – Modi non è il primo premier indiano a non appartenere al Partito del Congresso e non è vero che «le caste ufficialmente non esistano più in India» -, Scridel dimostra che gli sforzi del soft power indiano hanno raggiunto dei risultati ragguardevoli nel campo della rimozione della politica come elemento di valutazione del paese. Bastano i numeri e il Pil, stratosferici, per raccontare le fauste sorti di un paese e della sua classe dirigente al momento al potere, incarnazione di una presunta e comoda influenza benigna del capitale nell’evoluzione «del pensiero e della cultura nel contesto indiano».
È poi intervenuto Antonio Armellini, ex ambasciatore italiano in India e raro esemplare di osservatore del subcontinente indiano preparato, lucido e italiano. Per Armellini «l’India è certamente una democrazia consolidata, ma sui generis», che da decenni «occupa militarmente il Kashmir» e convive con una situazione «d’emergenza» lungo tutti i propri confini orientali, manifestando «un problema di difficile correlazione fra la visione globale di un paese che si vuole pacifista, democratico, cooperativo, e una realtà che invece tende a essere assai più coercitiva all’interno».
Tra riferimenti all’ultrainduismo di ispirazione fascista della Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss, organizzazione paramilitare dove lo stesso Modi ha militato sin da bambino e spina dorsale del partito di governo Bharatiya Janata Party) e il ridimensionamento della massa critica di 300 milioni di persone della classe media – dati del Fondo Monetario Internazionale, ma il Pew Research Center ad esempio stima siano solo il 3 per cento della popolazione indiana, cioè meno di 40 milioni – Armellini ha ricordato che dietro la rappresentazione spiritual-finanziaria del paese fatta dal soft power indiano, e dai suoi (ignari?) adepti nostrani, esiste e persiste un’India degli indiani che «beh, è proprio un’altra cosa».
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