In questi mesi estivi gli inquirenti indiani, come promesso alle autorità italiane, hanno proseguito nelle indagini relative alla vicenda dei due fucilieri di Marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, accusati di omicidio e in attesa di processo da quasi 600 giorni. La National Investigation Agency (Nia) – la polizia federale indiana alla quale è stato affidato il caso dei due marò – ha passato in rassegna le precedenti indagini portate avanti dalle autorità del Kerala, col compito di formulare un nuovo documento a sostegno dell’accusa compatibile col passaggio del procedimento penale a livello federale. La Nia chiesto di risentire ogni teste interrogato all’epoca dei fatti, agendo in un clima di sostanziale collaborazione con le autorità italiane almeno fino alla scorsa settimana, quando tra le pieghe delle dichiarazioni della Farnesina si è iniziato a intravedere un timido cambio di linea destinato a complicare ulteriormente una vicenda ingarbugliata e spinosa.
Se infatti i civili a bordo dell’Enrica Lexie, assistiti da un team di legali dell’armatore D’Amato, si sono tutti recati in India a deporre davanti ai funzionari della Nia (confermando le dichiarazioni già in possesso degli inquirenti), i militari appartenenti al Nucleo militare di protezione (Nmp) del San Marco si sono rifiutati di collaborare con le autorità indiane. Latorre e Girone, residenti e impiegati presso l’ambasciata italiana di Nuova Delhi, si sono limitati a dichiarare generalità e grado; mentre per gli altri quattro marò a bordo della Lexie nel febbraio 2012, dalla Farnesina fanno sapere che l’eventualità di un loro rientro in India per un interrogatorio non è nemmeno da prendere in considerazione.
L’inviato del governo Staffan De Mistura ha spiegato che, nonostante l’Italia sia formalmente vincolata da un patto di collaborazione con l’India siglato nel maggio 2012, i quattro marò attualmente in Italia (Renato Voglino, Massimo Andronico, Antonio Fontana e Alessandro Conte) non torneranno in India «in nessun caso». Posizione intransigente che De Mistura, su Radio Rai, ha giustificato con un vago riferimento a «tensioni politiche in India e Italia» e «reazioni da parte dell’opinione pubblica», spiegando di aver proposto a Nuova Delhi una serie di alternative: interrogatorio in videoconferenza, deposizione scritta o confronto da tenersi entro i confini italiani. Tutte opzioni rigettate finora dalla diplomazia indiana muovendo, in maniera altrettanto rigida, ragioni di carattere burocratico e giurisdizionale. Questo vicolo cieco, avvertono dall’India, non farà altro che ritardare ulteriormente la conclusione delle indagini e l’inizio del processo, precedentemente previsto per il mese di settembre.
Decifrare il cambio di rotta della diplomazia italiana dà adito a deliri da wishful thinking su una diplomazia di Roma che «mostra gli attributi». Ma l’evanescenza delle ragioni italiane accoppiate ad un cambio così radicale rilanciano una serie di dubbi già emersi con il rapporto interno della Marina Militare stilato dall’ammiraglio Piroli apparso su La Repubblica lo scorso maggio ma redatto almeno un anno prima.
Nel rapporto, tra le altre cose, si apprendeva che le matricole dei fucili che secondo gli esami balistici hanno sparato contro i pescatori Ajesh Binki e Valentine Jelastine non erano quelle di Latorre e Girone, ma di altri due marò, Voglino ed Andronico.
Considerando che le circostanze dell’arresto di Latorre e Girone, i due più alti in grado nel Nmp, rimangono un mistero – si sono fatti avanti loro? I due sottufficiali erano davvero in turno di guardia al momento degli spari? Si sono presi responsabilità collettive seguendo la gerarchia del Nucleo? – e che diversi dati delle deposizioni dei due marò sono stati poi confutati dalle indagini – uno su tutti, la posizione della petroliera, prima a 33 miglia nautiche, poi a 20,5 – le autorità indiane potrebbero lecitamente sospettare un clamoroso scambio di persona che, dopo un anno e mezzo, cambierebbe drasticamente tutte le carte in tavola. Dopo una prima presa d’atto del rifiuto italiano alla collaborazione delle indagini, stamattina il ministro degli Esteri Salman Khurshid, ripreso dai quotidiani locali, ha precisato che l’India «non si trova di fronte a alcun rifiuto» e che diplomazia e ministero degli Interni indiani si stanno consultando col ministero della Giustizia, alla ricerca di «una via d’uscita legittima e ammissibile».
L’obiettivo comune che lega Roma a Nuova Delhi rimane uno solo: arrivare al più presto a un processo veloce ed equo, lasciandosi alle spalle un caso che il governo italiano non vede l’ora di archiviare e che l’India, con le elezioni nazionali del 2014 alle porte, ha tutto l’interesse a far sparire dal ricco prontuario di scandali e vicende equivoche a uso e consumo dell’opposizione nazionalista hindu.