Lo scorso 15 agosto l’India repubblicana e indipendente ha compiuto 70 anni. Sette decenni, nell’unità di misura degli stati-nazione, sono un’inezia, eppure esigono un bilancio netto, quanto più obiettivo possibile. Se non addirittura elegiaco: le feste è sempre meglio celebrarle che guastarle.

IL CAMMINO DELL’INDIA nella Storia inizia con uno dei traumi più profondi del secolo scorso, una genesi per amputazione che dai territori liberati dal giogo della corona britannica avrebbe ricavato due stati autonomi, pensati male e disegnati peggio. Un’India centrale «per gli hindu» e un Pakistan «per i musulmani» diviso in due; quello Orientale, nel 1971, avrebbe combattuto per un’ulteriore indipendenza, diventando Bangladesh.

Mesi prima e dopo la Partition, che coincide con le indipendenze di Pakistan e India, celebrate rispettivamente il 14 e il 15 agosto, le violenze tra la comunità musulmana e quella hindu lasciarono sul campo tra gli uno e i tre milioni di morti e almeno 15 milioni di sfollati in cerca di sicurezza al di qua o al di là di confini incerti, ufficialmente annunciati dal giudice inglese Cyril Radcliffe solo il 17 agosto 1947; due giorni dopo le indipendenze. La storiografia post-coloniale ha ormai provato in modo puntuale e cristallino le responsabilità britanniche del disastro umanitario, raccontando un impero in declino deciso ad abbandonare il subcontinente in fretta e furia per evitare di trovarsi in mezzo a una guerra civile tra hindu e musulmani. Tanto che l’ultimo viceré britannico, Louis Mountbatten, anticipò la Brexit subcontinentale di dieci mesi rispetto alla tabella di marcia concordata con le parti, aggiungendo caos al caos.

DI QUESTO ESORDIO sanguinoso e rocambolesco si preferisce ricordare il successo della non-violenza e della resistenza passiva come pratiche di lotta politica, ispirate dalla condotta spirituale mutuata dal giainismo di Mohandas «Mahatma» Gandhi. O ancora, la solennità del discorso pronunciato dal primo premier dell’India liberata, Jawaharlal Nehru: quell’«appuntamento col destino» cui la neonata repubblica indiana si presentava con altissime aspettative: una democrazia, la più popolosa di sempre, casa di ogni cittadino indiano senza distinguo religiosi, impegnata nell’affrancamento dalla povertà, dalla malattia, dalla diseguaglianza e dalla disparità di opportunità.

A DIFFERENZA DI PAKISTAN e Bangladesh, a lungo governati da dittature militari e ora caratterizzati da una profonda instabilità politica, la scelta di campo democratica dell’India indipendente ha tecnicamente tenuto per la quasi totalità di questi ultimi 70 anni, salvo il biennio autoritario 1975-1977 imposto dall’«Emergency» di Indira Gandhi.
Ma è un fatto che la democrazia indiana si sia espressa e continui a esprimersi in modo controverso, spesso rasentando le sembianze delle dittature asiatiche più sanguinarie, come nel Kashmir, di fatto territorio occupato militarmente cui è stato negato il diritto a un referendum per l’autodeterminazione della popolazione a maggioranza musulmana.

È SUCCESSO E SUCCEDE nelle «sette sorelle» del nord-est, stati federati schiacciati tra Cina, Bangladesh e Myanmar dove le istanze indipendentiste, anche violente, sono represse da milizie governative che, per statuto, agiscono al di là delle norme costituzionali vigenti; succede nelle «campagne rosse» dell’India centrale, dove l’offensiva contro l’insorgenza maoista ha dato carta bianca a soldati e organizzazioni paramilitari per razzie, torture, stupri e persecuzioni contro la popolazione tribale.

Al di là dei macroscopici casi di sospensione del diritto, la democrazia di stampo dinastico indiana, retta per decenni da un passaggio di consegne tutto interno alla famiglia Nehru-Gandhi, continua a essere «la peggior forma di governo possibile, eccetto tutte le altre».

Un sistema imperfetto che, applicato all’assetto federale, impone una quotidianità del discorso politico in perenne modalità da «campagna elettorale»: tra elezioni federali, statali, municipali e del «panchayat» – unità minima amministrativa della repubblica indiana – l’impressione è che gli schieramenti politici non facciano altro che rinfacciarsi responsabilità storiche o miopie programmatiche, tenendo in ostaggio 1,3 miliardi di persone nel pantano di una Cosa Pubblica dove molto viene annunciato e poco concretizzato.

Eppure, parafrasando l’editoriale dell’Indipendenza firmato da Pratap Bhanu Mehta per Indian Express, «in modalità da missione, con dispense speciali, possiamo raggiungere qualsiasi obiettivo», come hanno provato misure eccezionali che hanno fatto dell’India un esempio virtuoso a livello mondiale, dalla recente eccellenza del progetto aerospaziale nazionale tornando indietro fino all’epoca delle rivoluzioni verde (’60) e bianca (’70): due gioielli di implementazione dall’alto che resero il paese autosufficiente dal punto di vista alimentare e primo produttore di latte e derivati al mondo (primato che l’India, orgogliosamente, tutt’ora detiene).

QUEST’INDIA DELLE ECCELLENZE – compresa quella dell’hi-tech che trainò la crescita subito dopo l’apertura economica degli anni ’90 – continua però a convivere con quello che Diego Maiorano, ricercatore presso l’Università di Nottingham, in un recente articolo ha chiamato «il più grande spreco di capitale umano che il mondo abbia mai visto o che potrà mai vedere»: centinaia di milioni di indiani che vivono tra povertà ed estrema povertà (in tutto sono quasi l’80 per cento della popolazione), un indiano su quattro condannato all’analfabetismo, malnutrizione infantile a livelli sub-sahariani e un esercito di potenziali lavoratori privo di competenze e di posti di lavoro regolarizzati che lascino sperare in un avanzamento socio-economico.

In questo quadro, l’amministrazione della destra hindu – col Bharatiya Janata Party (Bjp) del premier Narendra Modi- si è fatta promotrice di una politica ambiziosa in economia e socialmente retrograda, in linea con la stagione contemporanea delle destre al potere, dalla Turchia agli Usa.

IN POCO PIÙ DI TRE ANNI di gestione Modi, l’India ha cercato di proiettare un’immagine di superpotenza in costruzione, vantando una crescita del Pil da record – +7% la stima per il 2017 -, misure spregiudicate come la demonetizzazione del novembre 2016 o la riforma fiscale per un’Iva nazionale, fino alla campagna simbolo di NaMo: Make in India, incentivi e misure neoliberiste che dovrebbero ingolosire gli investitori internazionali.

Nel frattempo, l’adesione di buona parte dell’esecutivo ai dettami dell’hindutva – dottrina politica della destra ultrahindu che segna il primato dell’induismo intollerante su tutte le altre minoranze – ha legittimato le pretese egemoniche dell’estremismo hindu, intenzionato a silenziare o reprimere chi non sposa la causa dell’«hindu rashtra» (la nazione hindu teorizzata da Savarkar, ideologo della Rashtriya Swayamsevak Sangh, a inizio secolo).

MENTRE LE SQUADRACCE ultrahindu hanno avuto campo libero per spedizioni punitive ai danni di musulmani, tribali, consumatori di manzo, giornalisti, scrittori e artisti progressisti, le istituzioni hanno con successo imposto i cosiddetti «valori indiani» nel discorso pubblico. Un indiano che voglia definirsi tale deve, ad esempio, sostenere acriticamente l’operato delle forze armate, rigettare le devianze comportamentali dell’Occidente – uscire la sera a bere se donna, sesso prematrimoniale – e, se musulmano, provare la propria fede indefessa in Madre India per fugare il sospetto di quinta colonna filo-pachistana. In caso contrario, «può tornarsene in Pakistan».

Ne esce un’idea di India diametralmente opposta alle premesse pluraliste e inclusive del 1947. Un’India che, 70 anni dopo aver conquistato l’indipendenza, vede un progressivo restringimento delle libertà individuali sotto i colpi dell’intolleranza hindu, ma che nelle sacche di resistenza progressista non si abbandona allo sconforto. In modalità da missione, può raggiungere qualsiasi obiettivo.